Venticinque anni dall’uccisione di Giuseppe Borsellino, vittima innocente di mafia: “Siamo ancora in cerca di verità e giustizia”

“Siamo nel 1992, e a cadere sotto i colpi della violenza mafiosa un imprenditore che non si è piegato e non ha mai smesso di cercare verità e giustizia per il figlio. 25 anni dopo si rinnova la memoria” 

Sono passati 25 anni dall’uccisione di Giuseppe Borsellino, imprenditore di Lucca Sicula, comune di circa 1800 anime in provincia di Agrigento, padre di Paolo Borsellino (omonimo del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio) ucciso anche lui qualche mese prima.  Siamo nel 1992, anno di sangue e di stragi. Quella di Giuseppe e Paolo è una storia comune a tanti. Una storia di amore e passione per il proprio lavoro stroncata troppo presto dalla violenza mafiosa.

Giuseppe e Paolo erano due imprenditori che sognavano di lavorare onestamente nel loro piccolo paese. Ma erano gli anni in cui gli interessi della mafia si stavano lentamente spostando verso il cemento e, di conseguenza, verso gli appalti. La colpa dei due imprenditori? Non essersi piegati alle richieste della mafia locale che cercava di impossessarsi della loro impresa di calcestruzzi. Un’impresa rinnovata, all’avanguardia per l’epoca, costruita con i sacrifici di Giuseppe che, insieme al figlio Paolo, lavorava con amore e passione. La mafia, si sa, è arrogante e quando vuole qualcosa la ottiene con la violenza. Ma i Borsellino non si sono piegati, e per questo hanno pagato con la vita. “Mio padre non aveva altri hobby, viveva per il lavoro, così come mio fratello Paolo.  – racconta ad Alqamah.it Antonella Borsellino, figlia di Giuseppe e sorella di Paolo –  Noi inizialmente gestivamo un bar in piazza, poi mio fratello decise di vendere il bar e di investire tutto nell’impresa di movimento terra che poi diventò di calcestruzzo”.

I sacrifici di Giuseppe e Paolo finiscono però per disturbare gli equilibri del paese e della provincia: “In quel periodo erano tanti gli interessi nel settore edile a Lucca Sicula e nei paesi vicini. Sono state realizzate tantissime opere pubbliche inutili, vuote. Fino a quel momento – racconta Antonella Borsellino – gli appalti erano in mano sempre agli stessi, quindi, quell’impianto innovativo dava molto fastidio alla mafia locale. Così sono iniziati i problemi: prendere appalti pubblici era diventato impossibile e i mafiosi iniziano a non farli lavorare. Da lì le offerte di acquisto che mio fratello rifiuta”.

Gli imprenditori Borsellino infatti rifiutarono tante offerte avanzate per l’acquisto della loro impresa, e così iniziano i primi avvertimenti: “hanno bruciato un camion, hanno tagliato tutti gli alberi di pesche in un nostro terreno a Bivona, tutto denunciato da mio padre. Nel frattempo aumentavano le offerte per l’acquisto dell’impresa” – aggiunge Antonella Borsellino.

Da lì alla fine Paolo accetta di cedere parzialmente l’impresa a delle persone di Burgio che, subito dopo la cessione, cercarono in tutti i modi di estrometterlo, fino a buttarlo fuori dalla sua impresa.

Un mese dopo la cessione parziale dell’impresa, il 21 aprile 1992, Paolo venne ucciso in un agguato. A soli 31 anni venne trovato morto nella sua auto a pochi passi da casa, ucciso a colpi di fucile. “Quel giorno è stato terribile – racconta Antonella Borsellino – è stata una cosa inaspettata, nessuno pensava che sarebbero arrivati a tanto. Mio padre ha subito raccontato tutto e collaborato con i carabinieri.” Il padre, che aveva intuito tutto, il giorno stesso dell’omicidio del figlio fornì ai carabinieri indizi sui possibili assassini e mandanti. Le sue dichiarazioni infatti permisero agli inquirenti di ricostruire successivamente gli intrecci tra mafia e imprenditoria a Lucca Sicula che portarono nei mesi successivi a numerosi arresti, anche all’interno dell’ufficio tecnico del Comune. Per quella sua voglia di verità e giustizia per il figlio fu emessa anche la sua condanna a morte: “Mio padre in quegli otto mesi ha ricevuto tantissime minacce e chiamate anonime durante la notte. Lui si è affidato totalmente nelle mani dello Stato ma non è stato protetto. Lui non aveva una scorta, non aveva particolari tutele. Diceva che “era un morto che cammina”, per questo la sua è stata una morte annunciata, ma non solo per lui ma per tutti”.

Le mani della mafia sul mercato del cemento erano troppo grandi e così, secondo la diabolica logica stragista mafiosa, anche l’imprenditore ribelle Giuseppe doveva fare la stessa fine del figlio. Così, appena otto mesi dopo, il 17 dicembre 1992 uccidono anche il padre, ma questa volta in modo plateale. Doveva essere anche un messaggio chiaro per gli altri: “mai mettersi contro la mafia”.

Così Giuseppe venne ammazzato nella piazza principale di Lucca Sicula, in pieno giorno: due killer in motocicletta gli scaricarono addosso una raffica di proiettili. In una piazza piena, in una piazza muta. Su questa triste vicenda negli anni sono stati tanti i dubbi sui mandanti, i silenzi, l’omertà, tanti i processi andati a vuoto e, purtroppo, come accade in molti casi, non si è ancora fatta piena luce sui delitti. I figli Pasquale e Antonella aspettano ancora giustizia. La cercano ogni giorno. Senza sosta. “La nostra è ancora una battaglia quotidiana, sulle orme di mio padre chiediamo allo Stato verità e giustizia”.

Dopo essere stati riconosciuti vittime innocenti di mafia nel 1994, nel 2001, in base ad alcune dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Paolo è stato estromesso dallo status di vittima innocente. Le dichiarazioni del “pentito” però, nella sentenza definitiva, “sono state ritenute inattendibili. – spiega Antonella Borsellino – Ma nonostante questo Paolo oggi non è più riconosciuto come una vittima innocente di mafia. Noi abbiamo fatto causa al Ministero dell’Interno per dare giustizia a Paolo, ma è una lotta impari. Allo Stato non conviene. Non c’è volontà. Ho fatto richiesta anche alla Commissione nazionale Antimafia che si è interessata, ma, ripeto, è una lotta impari. Troviamo un muro di gomma”.

Ma la vita di Giuseppe Borsellino si intreccia anche con quella di un altro Borsellino, il giudice Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio insieme agli agenti della scorta. A lui si era rivolto quanto il magistrato era a Marsala: “Si, tra di loro c’era un buon rapporto. È andato a trovarlo a Marsala e gli ha raccontato la storia delle pressioni per la vendita dell’impresa. Il giudice è rimasto colpito dalla storia di mio padre, dalla sua disperazione per la morte del figlio tra l’altro suo omonimo. Ricordo quando il 19 luglio mio padre apprese la notizia della morte del giudice, era disperato. In lui aveva trovato una speranza, una luce, era l’unico che lo ascoltava veramente e aveva preso a cuore il suo caso anche se non era di sua competenza”.

Per i due omicidi ci sono stati arresti e scarcerazioni, e alla fine per la morte di Giuseppe c’è stata una sentenza definitiva di condanna per il responsabile materiale dell’omicidio ma non per il mandante, rimasto sconosciuto. Per l’uccisione del figlio Paolo, invece, le indagini sono state archiviate.

“Oggi andare avanti è difficile per noi. La nostra è stata una tragedia nella tragedia. La mia famiglia per anni è stata isolata per la nostra scelta di ricerca di verità e giustizia in un territorio ad alta densità mafiosa. Lucca Sicula? No, non è cambiata. Oggi di Giuseppe e Paolo non si parla. Pochi hanno risposto al nostro invito per la commemorazione. Di loro non si parla nelle scuole, nelle piazze, sono stati dimenticati. Ma invece erano molto conosciuti in paese”.

Ogni anno durante il 21 marzo, nella giornata nazionale della memoria e dell’impegno, i loro nomi vengono letti dai ragazzi di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” insieme alle tante vittime innocenti delle mafie.

Oggi, domenica 17 dicembre, i familiari insieme ai volontari di “Libera”, saranno sul luogo dell’uccisione per ricordare Giuseppe e il figlio Paolo: “Mi auguro che la gente onesta partecipi senza paura” – ha aggiunto Antonella Borsellino. Assente per motivi personali don Luigi Ciotti che ha inviato una lettera ai figli: “Mi dispiace profondamente non essere con voi a Lucca Sicula. – scrive don Ciotti -E mi dispiace anche e mi ferisce che alla mia assenza siano state date interpretazioni false e strumentali. Sappiate comunque che, come in passato, ci sarò in futuro: di persona, con il cuore, con l’affetto e con l’impegno. E su questo che deve basarsi un cammino di speranza. Certo non facile, spesso impervio, ma praticabile se la fatica è condivisa, se è testimonianza corale di parole vere e di fatti concreti. È quello che ci chiede vostro papà Giuseppe, vittima innocente delle mafie. Non solo di essere ricordato, – conclude – ma di continuare a vivere nella nostra ricerca di giustizia e verità”.

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Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.