La Procura antimafia di Caltanissetta ha chiesto di processare quale mandante il boss dell’Acquasanta di Palermo, Vincenzo Galatolo
La strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985 fu decisa in un summit di mafia che si svolse a Castelvetrano, alla presenza dei capi assoluti di Cosa nostra trapanese, Ciccio e Matteo Messina Denaro, padre e figlio. Lo ha messo a verbale Santino Di Matteo, il pentito al quale la mafia per vendetta uccise il figlio, Giuseppe. Don Ciccio, il “patriarca” della mafia belicina, morto nel 1998 durante la sua latitanza, e il suo successore, Matteo, il capo della mafia trapanese , ricercato dal 1993, custode di mille segreti e di tante trattative. In quella strage morirono una mamma con i suoi due figlioletti, Barbara Rizzo di 30 anni, Salvatore e Giuseppe Asta, gemellini di sei anni. Barbara stava accompagnando in auto i figli a scuola; fecero da scudo, al momento dell’esplosione dell’auto imbottita di tritolo e lasciata ferma sul ciglio della strada, alla blindata dove viaggiava il pm trapanese Carlo Palermo, rimasto vivo: lui restò ferito, più gravi le condizioni degli agenti della sua scorta, ma nessuno di loro morì. Per la strage sono stati condannati all’ergastolo quali mandanti i capi mafia di Palermo e Trapani, Totò Riina e Vincenzo Virga, quali soggetti che portarono a Trapani il tritolo usato per l’autobomba, i mafiosi palermitani Nino Madonia e Balduccio Di Maggio. Adesso per questa strage sta per aprirsi un nuovo processo. La Procura di Caltanissetta ha infatti chiesto al gip il rinvio a giudizio del boss mafioso palermitano del rione Acquasanta, Vincenzo Galatolo, quale mandante della strage. L’udienza preliminare è fissata per il prossimo 12 febbraio. Ad accusare Galatolo sono la figlia “ribelle” Giovanna Galatolo e il pentito Francesco Onorato. La strage di Pizzolungo è attraversata da tantissime trame, i traffici di droga e di armi, la corruzione politica, l’attacco mosso da Cosa nostra allo Stato in quella terribile stagione degli anni ’80 fino ad arrivare alle stragi del 1992 e del 1993. Il tritolo usato a Pizzolungo è lo stesso usato in altre stragi: dicembre 1984 attentato treno rapido 904 (per il quale è stato condannato il cassiere della mafia siciliana Pippo Calò), il tentativo di attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone nel 1989, lo si è trovato in via D’Amelio il 19 luglio 1992, dove furono uccisi Borsellino e gli agenti della sua scorta. Tutti fatti attraversati dal filo di una possibile trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, mediati da poteri occulti, servizi deviati, e massoneria segreta. Nel fascicolo del nuovo processo ci sono le dichiarazioni di Onorato che collocano Pizzolungo dentro una possibile “trattativa” che lui ha spiegato in questo modo:“Non è mai esistita una trattativa fra mafia e Stato, c’è sempre stata una convivenza fra la mafia e lo Stato”, chi non faceva parte di quella convivenza o chi la poteva ostacolare è ovvio che doveva essere eliminato. La verità su questa strage, così come per altri fatti criminosi,resta nascosta dai depistaggi. E’ certo che gli esecutori della strage furono i boss di Alcamo e Castellammare, Nino Melodia, Vincenzo Milazzo (ucciso però nel 1992) e Gioacchino Calabrò: furono condannati in primo grado ma poi assolti in appello e in Cassazione. Il pentito Giovanni Brusca ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di “avvicinare” i giudici del processo di Pizzolungo. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Fu Nino Melodia a schiacciare il tasto del telecomando della strage. Ma non possono essere riprocessati, per loro è scattato il ne bis in idem , non possono tornare imputati per un reato per il quale esiste sentenza definitiva di assoluzione. E’ stata Giovanna, la figlia ribelle ad accusare il padre mafioso, Vincenzo Galatolo, di avere commesso la strage. «Non appena il telegiornale diede la notizia — ha messo a verbale Giovanna Galatolo — mia madre iniziò a urlare: ” I bambini non si toccano”. Mio padre le saltò addosso, cominciò a picchiarla, voleva dare fuoco alla casa». «Avevo vent’anni – ha raccontato Giovanna – a casa sentivo mio padre che diceva: “Quel giudice è un cornuto”. Poi, si verificò l’attentato. E mi resi conto, anche mia madre capì. Non si dava pace ». Giovanna Galatolo non conosce il movente che portò i boss di Cosa nostra ad agire con tanta fretta. Una pista del possibile movente è indicata nella sentenza con la quale sono stati condannati Totò Riina, Vincenzo Virga e Balduccio Di Maggio. Il giudice Carlo Palermo, all’epoca arrivato da appena 40 giorni a Trapani da Trento, era sulle tracce di un intreccio che legava mafia, trafficanti d’armi e massoni. C’è anche un verbale del defunto pentito di Campobello di Mazara, Rosario Spatola. Lui chiamava in causa un altro potente boss mafioso. Spatola riferì di una confidenza fatta dall’avvocato mafioso Antonio Messina: “il giudice Palermo – gli disse Messina secondo la sua testimonianza –costituiva una minaccia assai grave sia per la mafia che per i politici”. Spatola ha anche ricordato in quel verbale che settimane prima della strage l’avvocato Messina più volte si era visto con il boss Pippo Calò, “era Calò che teneva i contatti con i politici a Roma”. Per Francesco Di Carlo, altro pentito, palermitano, «la mafia doveva dimostrare di essere più forte dello Stato, si era fatto un gran parlare di questo magistrato che arrivava da Trento a Trapani, divenne obiettivo per questa ragione». Giovan Battista Ferrante, altro ex «picciotto» di Palermo, ha ricordato quando qualche giorno dopo la strage fu testimone di un incontro, in un magazzino di proprietà di Mariano Tullio Troja, boss di San Lorenzo a Palermo, anche lui deceduto, tra il capo mandamento di San Lorenzo, Pippo Gambino, con il mazarese Calcedonio Bruno, l’ architetto affiliato alla potente cosca di Mazara: «Gambino lo accolse facendogli un gesto, del genere per chiedergli “che cosa avete fatto”, Calcedonio aprì le braccia per dire “è successo”, per quella donna e quei bimbi morti. Oggi Calcedonio Bruno è libero, nonostante un ergastolo ha riacquistato la libertà, con se tiene alcuni segreti sulla potente cosca di Mazara del Vallo, strage di Pizzolungo compresa. A Mazara all’epoca della strage si nascondevano i peggiori mafiosi latitanti, da Riina ai Madonia. Dietro il botto del 2 aprile 1985 si vede benissimo che c’è la mafia potente, quella che sopravvive con gli intrecci storici e le alleanze con pezzi dello Stato, i servizi e la massoneria deviati, le banche e i banchieri spregiudicati, i traffici di droga e di armi, le rotte internazionali del crimine. E’ la mafia che lega le organizzazioni criminali italiane con quelle turche per esempio, o ancora la mafia che gestisce le «casseforti» del riciclaggio, dei denari di Cosa Nostra e una serie di investimenti illeciti. Dentro i fascicoli giudiziari che raccolgono la complessa istruttoria sulla strage di Pizzolungo, ci sono nomi che tornano in altre inchieste, quelle sul crimine internazionale, sulle alleanze tra mafia e borghesia. Il «movente» sull’ attentato di Pizzolungo bisogna andare a cercarlo dentro ciò che ruota attorno a Gino Calabrò, lattoniere e capo mafia di Castellammare, l’uomo che “imbottì” di tritolo la vettura usata per compiere la strage di Pizzolungo, e in quei momenti nell’officina di Calabrò ci sarebbero stati altri boss palermitani come Nino Madonia, Pippo Gambino e Nicola Di Trapani, come ha raccontato il pentito Giovan Battista Ferrante. Calabrò è uomo di stragi, affiancò il latitante capo mafia di Castelvetrano Matteo Messina Denaro nelle stragi del ’93, e per questo sconta l’ ergastolo, mentre per Pizzolungo assolto per la strage è stato condannato solo per la ricettazione dell’auto rubata usata per fare l’attentato. Il l lattoniere di Castellammare è uno che risulta avere stretto mani importanti, massoni come quelli della Iside 2 di Trapani, non tutti andati «ancora in sonno», alcuni ancora «in sella»; e di massoni e servizi deviati nell’attentato di Pizzolungo si ha percezione della loro presenza.