Il boss è tornato a Castellammare

Ai domiciliari Mariano Saracino, imprenditore e uomo di fiducia di Matteo Messina Denaro

L’età, i malanni, hanno pesato nel giudizio dei giudici più delle condanne. C’entra poi, a sostegno della decisione, anche il comportamento carcerario, ineccepibile. E lo si sa da tempo che in cella il mafioso tiene sempre un comportamento esemplare, pur non dismettendo quasi mai gli abiti del mammasantissima. Ed è così tornato a casa sua, per scontare ai domiciliari le condanne, il conclamato capo mafia di Castellammare del Golfo, Mariano Saracino. I suoi legali, che avevano cercato di ottenere in toto la revoca della custodia in carcere, nonostante il parere negativo della Procura hanno ottenuto un provvedimento ugualmente favorevole da parte dei giudici del Tribunale di Trapani, Saracino ha già lasciato il carcere, è tornato a Castellammare del Golfo, il suo “paesello” e lì nella sua casa sconterà le sue condanne, standosene ai domiciliari con il braccialetto elettronico e dovrà solo sopportare di pagare le spese di consumo dell’energia elettrica relative al funzionamento dello stesso braccialetto: immaginiamo essere per lui… un gran sacrificio. La figura di Mariano Saracino così come ci è stata consegnata da rapporti investigativi e sentenze di condanna non è mai risultata essere quella di un mafiosetto, di uno costretto a diventare mafioso per potere campare da imprenditore, una vittima diventata poi uomo d’onore, ma semmai tutt’altro, Saracino per investigatori e giudici che lo hanno condannato, è sempre apparso essere un mafioso tutto d’un pezzo, vicino a Matteo Messina Denaro, tesoriere della cassa della famiglia mafiosa castellammarese, o ancora una sorta di ministro dei lavori pubblici dei Messina Denaro, una sorta di alter ego del fu più importante ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, quale fu Angelo Siino uomo di fiducia di tal Totò Riina. Oggi Saracino ha i suoi 72 anni, dall’ultimo processo subito è uscito assolto dall’associazione mafiosa, ma è stato condannato a 10 anni per estorsione, i giudici prima di farlo scarcerare, scrivono nella loro ordinanza, hanno anche interpellato le persone offese dai reati commessi da Saracino, ma dicono di non avere ricevuto alcuna osservazione, di negativo hanno solo ricevuto il parere del pm, in quattro e quattr’otto però superato con tanto di pronunce di Cassazione. Venghino signori venghino nel Paese dei mostri (mafiosi) che tornano liberi.

C’è un pezzo di Sicilia dove sembra che il tempo non sia mai trascorso, dove tutto resta fermo agli anni in cui il potere di paese era rappresentato dal mafioso ai cui piedi tutti si inchinavano. A Castellammare del Golfo questa descrizione bene si addice. Qui il mafioso, nella persona di Mariano Saracino, da libero, e potente, era solito passeggiare giù e su per il “Cassaro”, una fermata al solito bar e poi di nuovo daccapo, tranne quando doveva assentarsi per guardare meglio in giro, poi ritornava. Sorrideva sempre Saracino, con chiunque, anche con i pochi che non lo sopportavano e nemmeno nascondevano di farlo, ma lui camminava e se ne fregava. E’ la Sicilia. La stessa che raccontava Sciascia moltissimi anni addietro, diciamo meglio nel secolo scorso e di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, ma a Castellammare del Golfo è come se il tempo si fosse fermato. E’ la Sicilia dove i personaggi sul palcoscenico sono i politici ammiccanti e i siciliani ai quali piace stare con i piedi in due staffe. E qui entra in scena un altro personaggio, Vincenzo Artale. Risarcito pare con una cifra consistente per essere stato vittima del racket nel 2006, diventato socio dell’associazione antiracket di Alcamo, talvolta conferenziere per raccontare il suo incontro con i taglieggiatori , Artale ha saputo trovare presto la maniera veloce per tornare a vendere calcestruzzo, diventando “socio” in affari di Mariano Saracino, il boss. E’ la Sicilia con la sua atmosfera di paese, dove i mafiosi non esistono ma vengono ancora chiamati galantuomini, come li appellava Sciascia nel suo primo libro, “Le parrocchie di Regalpetra”, è la Sicilia cui piace pensare che “il mondo non può essere diverso” e così la mafia, cambia pelle ma perpetua sempre il suo insanguinato potere, e persiste nel volere tenere soggiogata una società alla quale in fin dei conti per una parte piace non essere libera, e dove comanda il “vossia assabinirica”. Il pentito Nino Giuffrè ha indicato in Castellammare del Golfo la zona più potente del regno di Cosa nostra siciliana, qui i colpi inferti dalle forze dell’ordine non sono mai mancati, ci sono stati arresti, condanne, sono stati arrestati i boss ma anche le loro mogli ed i figli, il Comune è stato sciolto per infiltrazione mafiosa, quando consiglieri comunali erano anche figli di conclamati “uomini d’onore”, ma poi tutto è sempre ritornato a mettersi in ordine, e passando talora per i “Quattro Canti” è stato come vivere l’atmosfera dei Promessi Sposi di Manzoni, “due uomini stavano , l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole; un piccolo corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana; un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi”. I “Quattro Canti” è luogo di incontri ma funziona anche per sorvegliare, e per riferire le giuste notizie a don Mariano. Mariano sembra essere il nome preferito per i mafiosi, dal “Giorno della Civetta” alla realtà, e “don Marianino” anche nella realtà, fuori dal romanzo di Sciascia, è sempre un “ mischino “, un perseguitato, sia che si chiamava Agate sia oggi che si chiama Saracino. E a Castellammare di don Mariano ce ne è anche un altro oramai libero, l’odontotecnico Mariano Asaro, uomo tra mafia, massoneria e si dice…servizi deviati. E’ stato visto in giro, ad un paio di matrimoni anche importanti tra rampolli italo americani e gentil donne del posto. Le cose a Castellammare del Golfo spesso non appaiono per quelle che sono, in apparenza va tutto bene, nel paese che fu terra di quel Gino Calabrò il carrozziere che nel 1985 si occupò di preparare l’autobomba usata per la strage di Pizzolungo e che nel 1993 fece parte del gruppo di mafiosi che mettevano bombe in giro per l’Italia. A Castellammare del Golfo c’è una mafia ancora forte, dove sono tornati in giro i boss di un tempo o i loro figli, dove sono tornati liberi coloro i quali hanno evitato le condanne all’ergastolo per omicidio e hanno scontato le condanne associative, qui c’è la mafia che ha saputo confondersi con la società civile, dove i vecchi boss hanno fatto laureare i loro figli, e li hanno lanciati nel campo delle professioni,qui c’è la mafia che sa bene usare la sua nuova arma che è quella della corruzione, è la mafia che non fa delitti e ai politici, a certi politici, viene facile ammiccare con essa…figuratevi poi la politica ammiccava con la mafia quando commetteva delitti e stragi, figurarsi adesso, dove in nome della legge boss pericolosi come Saracino tornano liberi. Saracino il boss che custodisce certi segreti, come quelli che stanno dietro la morte di un altro boss, Vincenzo Milazzo, e della compagna di questi, Antonella Bonomo. Ammazzati brutalmente nell’estate del 1992, alla vigilia della strage di Via d’Amelio a Palermo, dove il tritolo fece a pezzi Paolo Borsellino e la sua scorta, avrebbero saputo dei contatti pericolosi tra servizi segreti e la mafia. Saracino è sempre rimasto in silenzio, ha fatto il bravo e la persona educata in carcere, e ha comunque meritato nonostante i suoi silenzi la libertà.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.