Rivelazione del pentito catanese Avola nel processo contro il capo mafia di Castelvetrano
di Aaron Pettinari, Davide de Bari e Karim El Sadi*
Ma non era certo quello il primo omicidio eccellente a cui il capomafia trapanese avrebbe partecipato. Infatti Avola ha anche raccontato che D’Agate gli parlò del coinvolgimento del superlatitante nell’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto: “A me, che esternai delle perplessità sul coinvolgimento di Matteo Messina Denaro nell’omicidio Scopelliti, Marcello D’Agata, consigliere della famiglia catanese, mi rispose che Messina Denaro aveva già partecipato ad un omicidio eccellente nel 1983, quello del giudice trapanese Ciaccio Montalto, insieme a Marcello D’Agata, Aldo Ercolano e Mariano Agate. E’ proprio in questa occasione che D’Agata divenne uomo d’onore”.
Gli incontri con Messina Denaro
Avola ha poi aggiunto di essersi incontrato personalmente con la primula rossa che a Catania si era recato più volte. “Una prima volta era venuto per ‘aggiustare’ il processo sull’omicidio di Vito Lipari. Il D’Agata mi disse che i Messina Denaro avevano una certa influenza sulla massoneria del luogo e conoscevano magistrati. Si diceva che Francesco Messina Denaro fosse un massone. Poi ci incontrammo a febbraio-marzo del 1992. I palermitani dovevano andare ad uccidere Martelli e Falcone a Roma e avevano bisogno di armi. Proprio Messina Denaro venne a Catania a ritirare una macchina dove avevo messo due kalashinkov, un bazooka usa e getta, due bombe a mano due calibro novex21. Erano armi che venivano dall’ex Jugoslavia”. Avola ha anche detto che in quel giorno Messina Denaro si presentò con un uomo che non gli fu presentato come Cosa nostra (“Era sfrontato, vestito elegante, con occhiali da sole ed un’altezza di un metro e settanta”).
Il teste ha anche riferito che nel 1989 vi era stata una possibilità di uccidere Falcone a Catania, prima dell’attentato all’Addaura: “I corleonesi dicevano che Falcone aveva favorito la discesa dall’America di Contorno che si era messo ad uccidere uomini d’onore. Era tutto pronto, sapevamo dove doveva andare a mangiare ma poi non si fece nulla. Per l’Addaura invece ci eravamo mossi tramite Marcello D’Agata per mettere a disposizione un elicottero telecomandato caricandolo di esplosivo. Avevamo un allarmista all’avanguardia, Alberto Torre. Fu lui che modificò i telecomandi presumibilmente usati per la strage a Capaci. Poi non si fece più niente perché dissero che ci avrebbero pensato i palermitani”.
Il ruolo nella strage di Capaci
Se negli anni Novanta Avola aveva parlato delle stragi, solo ammettendo di aver portato dell’esplosivo T4 a Termini Imerese senza sapere quale sarebbe stato il suo utilizzo, nell’ultimo anno il pentito catanese, che si trova in carcere da 22 anni, ha riferito ulteriori dettagli indicando anche le proprie responsabilità. “Per aggiustare l’esplosivo per l’attentato dovevamo essere o io o Pietro Rampulla – ha detto venerdì in aula – Arrivò pure una persona che era di fuori di Catania che ci ha imparato una tecnica moderna di come maneggiare questo tipo di esplosivo”. Immediatamente sul punto è stato stoppato dal pm Paci che ha evidenziato come “vi sono delle indagini in corso”. Ma rispondendo ad un’altra domanda è emerso che questo soggetto “era un appartenente alla famiglia Gambino di Cosa nostra americana”. “D’Agata mi disse che l’interesse degli americani c’era perché anche loro avevano avuto un processo con Falcone in mezzo. Un’indagine patrimoniale” ha aggiunto il teste.
Avola ha poi continuato il racconto del trasporto dell’esplosivo nell’aprile ’92: “Caricai i panetti in dei contenitori per le olive. Poi con D’Agata abbiamo fatto una steffetta. Nel caso vi fosse stata qualche pattuglia di stradale si faceva fermare lui con una brusca manovra. Abbiamo consegnato la roba nel primo rifornimento a Termini Imerese dove c’erano due che conosceva D’Agata. Io sono sceso e sono andato nella Fiat uno di D’Agata”. Per quanto riguarda i telecomandi utilizzati per la strage di Capaci il teste ha confermato che furono portati in un secondo momento da Vincenzo Galea ma ha anche spiegato che furono fatti dei test: “Per sicurezza io, Aldo Ercolano e D’Agata ce ne siamo fatti fare un altro e l’abbiamo testato nella strada della scogliera fra Lido Acquarium e l’entrata di Aci Castello. La distanza era più o meno 700 metri. Del resto ai palermitani serviva coprire una distanza di un chilometro. Abbiamo messo in una macchina il detonatore senza dinamite. Funzionò e poi consegnammo gli altri telecomandi”.
Paura della massoneria
Alla luce dei molteplici episodi riferiti per la prima volta da Avola, come ad esempio anche un altro omicidio di un soggetto vicino a Giuseppe Ferrara (uomo d’onore cugino di Santapaola) che nel 1989 aveva avuto un problema con Messina Denaro e che al contempo parlava male di Nitto Santapaola, il pm Paci non ha potuto fare a meno di chiedere il motivo per cui solo oggi, dopo tanti anni, si è deciso a riferire certi episodi. “Quando collaboravo nel ’94 non mi sentivo pronto. Avevo i bambini piccoli e mi ero autoaccusato di omicidi di secondo piano” ha detto in un primo momento il teste, anche se già si era autoaccusato del delitto del giornalista Pippo Fava. Quando il pm gli ha fatto notare che tra le sue dichiarazioni vi erano anche quelle su figure importanti come Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, Avola ha proseguito: “Ma anche se parlavo di Dell’Utri io non lo paragono a Messina Denaro. I ventidue anni di carcere mi hanno fatto riflettere e non ho mai avuto benefici. Ho deciso di parlare di tutto quello che so con i magistrati”. Paci ha poi letto un passaggio del verbale del 17 dicembre 2018 in cui ai pm di Reggio Calabria aveva riferito: “Io non ho mai parlato della riunione di Trapani perché temevo, e temo molto i circuiti massonici in cui i Messina Denaro sono collocati. Sono molto potenti ed hanno a loro servizio numerosi soggetti delle istituzioni”. Avola ha così confermato ed aggiunto che “sono queste persone che fanno paura perché portano le notizie su dove si trova chi è sotto protezione. Hanno amicizie nei servizi centrali. Ci sono personaggi dello Stato che fanno il doppio gioco. E l’operazione di un mese fa, che ha visto coinvolti soggetti della massoneria di Trapani non mi ha smentito”.
Una Falange Armata per le stragi
Come aveva fatto anche in altri processi Avola ha anche parlato degli attentati in Continente, spiegando di essere stato a sua volta inviato nel 1992 a Firenze per visionare qualche monumento da colpire (“individuai il Donatello finto, che sta nella piazza. Ma doveva essere un attentato dimostrativo, di notte. Anche le stragi di Firenze, Milano e Roma non dovevano colpire civili ma poi non è stato così”) ed ha anche spiegato che gli attentati negli anni delle stragi dovevano essere tutti rivendicati con la misteriosa sigla della Falange Armata (“C’era un mezzo parente dei Santapaola che era centralinista e telefonava i giornali per rivendicare anche cosa che non aveva fatto Cosa nostra come la strage dei fratelli Savi, quella del Pilastro a Bologna. Ma Marcello D’Agata mi diceva che si doveva rivendicare tutto”). Inoltre ha anche raccontato dei progetti di morte contro Salvo Andò ed Antonio Di Pietro, anche se quest’ultimo non rientrava nella strategia delle stragi ma doveva essere un favore a un imprenditore del nord che aveva problemi con Mani Pulite. Attentati che poi non furono fatti “perché ci fu anche l’avviso di qualcuno dei Servizi segreti o della polizia. O almeno noi credevamo così”. Tra gli attentati da compiere vi erano anche quelli a Costanzo, di cui si occuparono i palermitani, e quello a Pippo Baudo, reo di aver parlato contro la mafia. “Facemmo saltare la villa perché fece delle trasmissioni al ‘Costanzo show’. Lo volevamo uccidere ma Santapaola disse di far saltare solo la villa. Così mi organizzai con i ragazzi di Acireale”.
Le testimonianze di Tranchina-Ferro e Patti
A salire sul pretorio, oltre ad Avola, sono stati anche sentiti i collaboratori di giustizia Fabio Tranchina, Giuseppe Ferro ed Antonio Patti. In particolare Tranchina, ex membro della famiglia di Brancaccio, ha riferito di un episodio accaduto durante un pranzo al ristorante “U pescaturi” a Mazara al quale partecipò insieme a Giuseppe Graviano (di cui era autista), Vincenzo Sinacori, e Matteo Messina Denaro. Quest’ultimo in particolare, una volta sedutosi a tavola insieme agli altri boss, “sbiancò in faccia improvvisamente quando vide entrare una persona. Successivamente ci fece uscire tutti di fretta e furia dal ristorante e ce ne andammo senza nemmeno mangiare”. Una volta fuori, Giuseppe Graviano “mi disse che la persona che era entrata nel ristorante era il dottor Rino Germanàspiegandomi che Messina Denaro non lo poteva vedere perché lo convocava sempre in Questura”.Sempre su Germanà, Tranchina ha riferito di un altro episodio accaduto verso la fine dell’estate del 1992, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, quando accompagnò Graviano in una villetta per incontrare Matteo Messina Denaro. I due capi mafia si “isolarono per un’oretta”. “Al loro ritorno Graviano era stravolto – ha rammentato il teste -, era come se avesse visto il diavolo e ripeteva ‘è andata male, è andata male, è rimasto vivo’. A quel punto capii che avevamo sparato a qualcuno e che non era morto”. Tempo dopo Tranchina dedusse che la persona “sopravvissuta” era proprio il questoreRino Germanà, miracolosamente scampato ad un agguato del commando mafioso formato daGiovanni Brusca, Leoluca Bagarella e da Matteo Messina Denaro. Anche Tranchina ha raccontato che il gruppo di Brancaccio, tra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, preparò un’auto caricandola di armi. “Era la macchina di Firetto Cannella e la caricammo con pistole, mitragliatrici, fucili a pompa e giubbotti antiproiettile”, preparate di tutto punto da un gruppo numeroso di boss di alto livello. Tra questi “Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano, Fifetto Cannella (Cristoforo), Vincenzo Sinacori, Pietro Lo Bianco, un certo Pilo che custodiva le armi e forse Franco Geraci”. Quel vasto arsenale, secondo la memoria di Tranchina, “serviva per un’azione molto pericolosa ed eclatante che dovevano fare a Roma, sentì parlare di un ristorante”. Il teste, così come aveva fatto anche in altri processi ha anche ricostruito alcune fasi di preparazione dell’attentato in via d’Amelio quando, in più occasioni, si era trovato a passare proprio per quella strada con Giuseppe Graviano: “Mi aveva anche chiesto di affittare un appartamento proprio sulla via. Voleva che pagassi in contanti senza passare dalle agenzie. Non lo feci e lui disse ‘mi arrangio con il giardino’”.
Per concludere nella trasferta fiorentina è stato sentito anche Giuseppe Ferro, ex capo mandamento di Alcamo succeduto al boss Vincenzo Milazzo, ucciso da Ferro stesso insieme a Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella nel luglio 1992. E proprio sull’omicidio Milazzo si sono concentrate le domande del pm Gabriele Paci, alle quali, in sostanza, Ferro ha risposto che è stato assassinato in quanto era considerato “una carogna” e una mina vagante fuori dal controllo di Cosa Nostra, Totò Riinain primis. Circostanza in parte smentita da un altro collaboratore di giustizia, Armando Palmeri che, ascoltato nei giorni scorsi, ha ricondotto l’omicidio di Vincenzo Milazzo alla sua non volontà di“sposare la strategia stragista”.