Dai campi di patate e riso del Niger al terrore dei lager in Libia. Il racconto del viaggio in mare su un gommone stracolmo e la voglia di ricominciare dalla Sicilia
L’odore acre della benzina saliva su per le narici. Più era forte più ne aveva bisogno. Era una droga a cui non poteva resistere, anche se rappresentava l’odore della paura. I vestiti inzuppati di acqua marina, pesantissima acqua marina. Sembrava essere più bagnata del solito, com’era possibile? Il buio della notte sulla sua testa, sembrava pesantissimo. Schiacciava la pelle e penetrava nelle ossa. La salsedine sulle labbra ricordava a tutti il sapore forte del mare in tempesta, un mare nero come la notte. L’odore acre della benzina e la vita che scorre in fondo al mare. Le vite spezzate nel mediterraneo “a fare da guida” nel buio della notte. Le anime dannate morte nel silenzio mondiale sembravano “scortare” l’imbarcazione sul quel cimitero bluastro senza croci, senza nomi. “Pensavo di morire in quel mare, come tanti prima di me” – racconta Anan, nome di fantasia. Ogni scontro frontale con le onde un colpo di frusta. Uno schiaffo in pieno volto. Ogni spruzzo di spuma una doccia fredda di malinconia. Ogni urlo di donna un pugno in faccia all’umanità tradita da un tweet. Ogni pianto di bambino un inno all’ipocrisia di chi non vuol vedere. C’è un detto che dice “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”, sul barcone anche un sordo farebbe fatica ad isolarsi. “Le urla ti divorano il timpano” – sottolinea. La paura si materializza e diventa concreta, cullata dal mare in tempesta. Alimentata dal vento di tramontana. Caldo di giorno, freddo di notte, nessun riparo. Questo è quello che ha vissuto Anan, durante il viaggio dalla Libia all’Italia. Un viaggio lungo, difficile, che porterà sempre con sé e che descrive come se fosse accaduto ieri. Le ustioni resteranno indelebili, a ricordargli quel terribile ed eterno viaggio della speranza. “Le ustioni in mare? Ho appreso successivamente che sono provocate dal sole, dalla benzina e dall’acqua salata. Un mix letale che divora la pelle”. Anan racconta con dovizia di particolari quel terribile viaggio in mare di due anni fa. Abbiamo deciso di partire da quel viaggio per poi fare un passo indietro in Libia.
Anan è sceso scalzo dal barcone. Era notte fonda. Il telo giallo sulle spalle, una coperta per cercare di tagliare fuori il freddo ormai penetrato nelle ossa. Come una linea taglia fuoco, in mare il nemico numero due, dopo il mare stesso, è il freddo. Non ne aveva mai sentito tanto. Lui non era preparato al freddo. Lavorava nei campi e sentiva il peso del sole sulla testa ogni mattina. Ora, invece, rievoca quel freddo tagliente come un terribile predatore da dimenticare. Ma indietro bisognava lasciarsi anche le violenze e i soprusi. Anan è stato soccorso da una nave militare in un mare sempre più grosso. Erano circa 100, su un gommone molto piccolo. Gli uomini più forti ai bordi dell’imbarcazione, le donne e i bambini al centro. Piangevano i bambini, piangevano sempre. Ma per Anan resteranno indelebili anche i terribili momenti vissuti in Libia, in un centro di detenzione. Una prigione. Un lager dei giorni nostri.
La cronaca di quello che succede nei lager libici la conosciamo bene. Forse. La conosciamo se vogliamo conoscerla. Perché qualcuno ancora continua a fare finta di niente. Chiudiamo gli occhi, senza scrutare l’orizzonte. Un orizzonte distante poche miglia dalle coste siciliane. La Libia, infondo, non è poi così lontana. Eppure basta quella sottile distanza per far dire “non mi importa, non ci importa”. Non è affare nostro. Lo è eccome. Anzi, forse interessa più a noi che ad altri. Alla Libia abbiamo fornito imbarcazioni, strumenti, uomini e risorse, abbiamo formato gli uomini della Guardia Costiera libica. Non saremo forse un po’ complici di questa disumanizzazione forzata? Nessuno sente l’obbligo di dare risposte alle tante domande dei migranti in cerca di luce in fondo ai lager libici? Una disumanizzazione forzata imposta a colpi di propaganda 2.0 che corre veloce sul web, tramite i social network. Un fiume in piena di menzogne, niente di più. Intanto in mare e in Libia si continua a morire.
Anan è cresciuto nei campi di patate e riso del Niger, quasi al confine con il Mali. In un piccolo villaggio povero di uno dei Paesi più poveri al mondo e sotto il terrore dei fondamentalisti islamici di Boko Haram. Dalla mattina alla sera raccoglieva ortaggi nei campi. Sotto il sole cocente già a 10 anni. È fuggito a 16 anni, sotto la spinta della madre che, dopo la morte del padre, decise di far partire il figlio più piccolo per garantirgli un futuro migliore. Pochissima scuola, qualche anno. Poi il terribile viaggio con altri ragazzi, dal Niger al deserto, fino alla Libia. Resta in alcuni paesi del Niger per parecchi mesi lavorando nei campi e mettendo da parte qualcosa. Dopo tre giorni nell’arido deserto su un pick-up vecchio e arrugginito, in compagnia di alcuni ragazzi conosciuti sui campi, con pochissima acqua, raggiunge la Libia. Quasi subito viene arrestato da un gruppo armato e portato in un carcere. “Ho perso di vista quei ragazzi che erano con me. Siamo stati divisi e portati in città diverse o in centri diversi. Erano stanze grandi, tutte uguali. All’interno c’erano tantissimi ragazzi. Da noi volevano soldi per uscire. Dovevamo pagare per essere liberati. Io avevo con me alcuni soldi per il viaggio, così decisi di pagare (avevo nascosto dei soldi nelle scarpe) e poter fuggire da quell’inferno. Non riesco a definirlo in altra maniera. Un pezzo di pane al giorno che dovevo dividermi con un altro ragazzo, acqua pochissima. Alcuni ragazzi spesso litigavano per il pane. Un ragazzo giovanissimo si lamentava sempre perché aveva fame, gli uomini armati lo hanno portato via. Non l’abbiamo più visto. È stato terribile. Era giovane, forse più giovane di me, e a quanto ho appreso dagli altri ragazzi era lì da diverse settimane, non riusciva più a resistere ed era molto agitato, stava male. Capitavano anche liti per un pezzo di pane, in quel centro si moriva soprattutto di fame. Io sono riuscito ad andare via dopo quasi tre settimane”.
“Facevamo i bisogni in un buco e dormivamo per terra, su materassi e coperte. Pensavo di non uscire più. Ma poi con i soldi che avevo con me, nascosti bene, sono riuscito a “comprarmi” la libertà”. Successivamente con l’aiuto di un ragazzo conosciuto nel lager libico si imbarca per raggiungere l’Europa. “Siamo arrivati sulla spiaggia di Sabrata di mattina presto, eravamo circa un centinaio di persone. Molti bambini e alcune donne”. Di quella notte abbiamo già raccontato all’inizio di questa storia. È sceso scalzo dal gommone. Una scarpa era caduta in mare, l’altra è rimasta sul gommone. Poi al porto di Lampedusa alcuni volontari gli diedero delle coperte e delle scarpe.
Anan oggi ha 20 anni, è giovanissimo e lavora in un ristorante in una città del trapanese. “La mattina vado a scuola, il pomeriggio lavoro in un ristorante. Il lavoro mi piace molto, ma la scuola mi piace di più. Sono qui da quasi due anni, ho girato molti centri della Sicilia, e oggi mi sono fermato nel trapanese. Qui mi trovo molto bene. Però un giorno vorrei raggiungere la Francia, ho due cugini che lavorano e vivono lì”.
“I terribili giorni in Libia non li dimenticherò mai, come non potrò dimenticare le ore passate al freddo su quel gommone. Porto ancora segni indelebili sul corpo. Adesso però voglio guardare avanti, il mio futuro devo costruirlo passo dopo passo.”
La prossima storia sarà pubblicata domenica 9 giugno 2019.
Foto di copertina Olmo Calvo Rodríguez.