Stefano, infermiere e soccorritore a bordo della Mare Jonio racconta la sua esperienza su quella che è stata ribattezzata la “nave dei bambini”. Tra i sorrisi dei più piccoli, le paure delle madri e le violenze di chi ha rischiato di morire prima in Libia e poi in mare
“È un target, sembra vuoto… anzi no, si vedono delle teste, sono tantissime”- urlavano i soccorritori mentre scrutavano il grosso gommone in mezzo al mare. Più si avvicinavano all’obiettivo, più il gommone iniziava a prendere forma. Così i soccorritori della Mare Jonio hanno individuato il loro “target”, il termine usato per indicare un gommone in mezzo la mare, un gommone strapieno di uomini, donne e bambini. “Inizialmente sembrava vuoto, poi però sono spuntate le teste, tantissime teste. Gli occupanti del gommone si erano nascosti convinti di trovarsi la guardia costiera libica.” Questo è il racconto di chi era in prima linea sulla Mare Jonio, il rimorchiatore della ong italiana Mediterranea Saving Humans che la notte tra il 27 e il 28 agosto ha salvato 98 persone nella zona Sar libica. Si chiama Stefano Caselli, infermiere di 31 anni che da oltre vent’anni vive a Bologna e collabora con l’Associazione YaBasta Bologna, un collettivo che si occupa di diritti e libertà di movimento, di giustizia sociale e ambientale, di informazione libera e indipendente, della difesa di percorsi di accesso alla democrazia reale.
Lui, responsabile sanitario di Mediterranea, è tra i volontari che quella mattina hanno portato in salvo i 98 naufraghi, tra loro 22 bambini e 26 donne. “Per me salire sulla Mare Jonio è stata una cosa naturale, sono un infermiere e in quel mare oggi muoiono tante, troppe persone. Unendo il mio lavoro e l’attivismo tramite YaBasta è stata una cosa direttamente collegata al mio percorso di vita.”
“Venivamo da diversi giorni insonni, il mare così grande da pattugliare con una sola nave, ti crea angoscia e uno stato di isolamento immenso. Intorno alle 5 del mattino sul radar individuiamo qualcosa che poteva essere un gommone, così puntiamo verso l’obiettivo.” Di quei minuti Stefano ricorda l’ansia percepita da tutti a bordo della nave, perché su quel gommone potevano trovare gente viva, già morta, o un relitto ormai alla deriva. “Arriviamo intorno alle 6 del mattino, c’era già più luce e dai binocoli lentamente iniziamo a scrutare le prime teste. Così caliamo le lance di salvataggio”. I soccorritori, con Stefano in prima linea con la croce rossa sul casco, affiancano il gommone e si trovano 98 naufraghi alla deriva da due giorni e due notti, senza più acqua e cibo. Rassicurati dalla presenza dei soccorritori, tra sorrisi e pianti liberatori, potevano finalmente lasciarsi l’orrore dei lager alle spalle. Un orrore però ancora vivo: avevano visto morire in mare nove compagni di viaggio. Infatti hanno raccontato ai soccorritori che nove compagni di viaggio erano caduti in mare, scomparsi tra le onde durante la traversata.
“Una volta arrivati lì ci siamo subito accorti che a bordo c’erano 22 bambini, dai 3 mesi ai 5 anni. Raramente si vedono numeri così elevati di bambini.” Dei 98 naufraghi c’erano anche 26 donne di cui 4 incinta. Distribuiti i giubbotti di salvataggio, inizia la spola per portare tutti sulla Mare Jonio. “Portiamo prima le donne e i bambini e poi tutti gli altri. Si è innescata una grande gara di solidarietà tra gli occupanti del gommone, gli uomini ci hanno dato una grande mano ad effettuare il trasbordo”. C’è una scena che Stefano non dimenticherà mai, il ponte della nave trasformato in un grande asilo nido. “Una volta concluse le operazioni di salvataggio, torno sulla Mare Jonio e noto subito gli altri membri dell’equipaggio con due o tre bambini a testa attaccati sul collo, sulle gambe, la nave era diventato un asilo ingovernabile. Le madri esauste si erano addormentate, e i bambini giocavano con l’equipaggio. Un grande inno alla vita”.
Sono persone in fuga da territori depredati da decenni, persone che farebbero di tutto per imbarcarsi rischiando la propria vita e quelle dei propri figli. “Proprio questo ci dovrebbe fare riflettere. Salvare vite umane oggi è diventato un atto straordinario perché viene fatto dalla società civile, perché l’Europa non muove un dito. Anzi, finanzia anche la Guardia Costiere libica con imbarcazioni e soldi. Io non vorrei stare in mare, ma è necessario. – sottolinea Stefano Caselli – Vorrei visitare queste persone a terra, ma fino a quando questa situazione non cambierà, noi andremo in mare. L’Europa deve cambiare radicalmente rotta su questo tema”.
“Partono tutti da Paesi depredati, con tanta prigionia alle spalle, quindi lavori forzati, violenze, stupri, torture, senza cibo e acqua. A volte per anni. Per poi provare la traversata anche più volte. Uno dei ragazzi salvati da noi durante l’ultima missione era al sesto tentativo. Quello che mi piace raccontare è il loro grande attaccamento alla vita, quello che dovremmo iniziare a riscoprire da questa parte del mondo. Questa grande voglia di lottare tutti assieme creando comunità solidali. In quei sei giorni passati insieme in mare ho imparato tanto da loro, mi hanno trasmesso davvero tanta forza e attaccamento alla vita” – racconta Stefano Caselli ad Alqamah.it.
Ma la conferma a tutto ciò arriva dalle prime visite effettuate dai sanitari presenti a bordo della Mare Jonio. La ginecologa dott.ssa Donatella Albini e Stefano hanno visitato prima le donne. Si lasciavano visitare senza problemi, non erano abituate a qualcuno che si prendesse cura di loro in modo gentile. “Sapevamo già cosa sarebbe venuto fuori dalle visite, ma sono quelle cose a cui non ti abitui mai. Nella quasi totalità le donne provenivano da Paesi dove si pratica la mutilazione genitale femminile, poi un buon 70% di loro aveva subito violenze di ogni tipo. Quelle incinte avevano subito violenze sessuali nei lager libici e la gravidanza era il frutto di quelle violenze. Il corpo di queste donne, ma anche degli uomini, è sempre testimone di quello che avviene in Libia.
Molti di loro, uomini e donne, non avevano mai visto un medico o non lo vedevano da anni, ed erano felici di farsi visitare, per noi era molto più difficile vedere quei terribili segni sul corpo. Sulla pelle di queste persone ci sono segni di torture e violenze, ma anche l’aspetto psicologico e psichiatrico non è da sottovalutare. Abbiamo registrato disturbi di ogni tipo, dal post traumatico al tentativo di suicidio, per questo motivo abbiamo fatto evacuare una donna durante l’ultima missione.”
A bordo c’era storie di ogni tipo, di disperazione, di morte, di schiavitù. Stefano le ha raccolte tutte, insieme alla dottoressa Albini hanno visitato e ascoltato le storie di tutti. “Metà dei naufraghi erano detenuti a Tajura, il centro bombardato lo scorso luglio. Molti di loro portavano i segni di quel giorno: bruciature, schegge di ferro sulle gambe, come reduci di guerra. Alcuni avevano perso un fratello, un amico. Sono storie che in qualche modo sai già prima di partire, ma spogliandoli ti rendi conto di come siano terribili quei segni indelebili sul corpo: bastonate, tagli, bruciature, mutilazioni, violenze e torture di ogni genere. Storie di botte al telefono con la madre mentre chiedono soldi, lavori forzati, infinite violenze sessuali. Storie di mera schiavitù.
Funziona così, chi in Libia ha bisogno di manovalanza, si reca da un carceriere e recluta schiavitù gratuita. Queste sono le storia dall’altra parte del mediterraneo, tutte documentate e firmate di mio pugno e della nostra mediatrice culturale. Non ci sono tanti margini per mistificare la realtà. Ci hanno anche accusato di inventare diagnosi per farli sbarcare. Sfido quei medici a venirli a visitare insieme a me. Quei segni non te li inventi, sono lì, incisi sulla pelle”.
“La nave di bambini”, così è stata ribattezzata la Mare Jonio nell’ultima missione. Loro stavano bene, anche se dopo due giorni alla deriva erano molto disidratati e zuppi d’acqua. Alcuni di loro avevano alcune ustioni provocate dal mix di acqua salata e benzina ed erano in uno stato di ipotermia avanzato. “Abbiamo subito tolto i vestiti bagnati e dato le coperte termiche per poi procedere all’idratazione e una doccia”. Dopo il salvataggio però era necessario tenerli a bada i ventidue bambini che correvano su e giù per il ponte. “Noi portiamo sempre qualche gioco per i più piccoli, matite, colori, solo che questa volta non bastavano per tutti. Tutta la nostra zona container era praticamente colonizzata dai bambini. Li abbiamo messi lì con le loro mamme, cercando di farli uscire il meno possibile per evitare che si facessero male.” Colori, giochi e tante attività per i più piccoli portate avanti dalle volontarie che si sono improvvisate “maestre d’asilo” per allietare il più possibile la loro permanenza a bordo. “Le volontarie – sottolinea Stefano – hanno fatto un lavoro straordinario con i più piccoli, sono riuscite a creare una piccola comunità”. La nave era diventata un asilo ingovernabile, i bambini si aggrappavano a due a due sui volontari e correvano per il ponte. Erano una fonte infinita di gioia e sorrisi.
Di quella missione c’è un’immagine che resterà impressa per molto tempo: il trasbordo delle donne e dei bambini di notte con il mare in tempesta. Un’operazione rischiosa, che ha provocato davvero tanto sgomento da parte dell’opinione pubblica. Su questo aspetto Stefano Caselli è chiaro: “è l’effetto naturale dei decreti sicurezza, che sono criminogeni. Nel senso che non fanno commettere un reato a me attivista, è criminogeno per gli stessi apparati dello Stato. Ecco, quelle immagini ci dicono questo, aver costretto gli uomini della Guardia Costiera ad effettuare un trasbordo al limite, in un mare in tempeste e pericolosissimo. Ricordo i pianti dei bambini quella sera. La situazione era davvero molto rischiosa, riconosciuta anche dagli stessi membri della Capitaneria di Porto che nonostante tutto sono riusciti a mettere tutti in sicurezza, per questo li ringrazio. È stata una brutta pagina per il nostro Paese.”
Il momento più duro a bordo, in sei giorni in mare, si è registrato quando a causa di un guasto sono rimasti senza acqua, causando un serio rischio di emergenza igienico-sanitaria. “Stare in 130 su un rimorchiatore non è chiaramente semplice. La vera difficoltà però è rapportarsi con le Istituzioni europee che sembrano un muro di gomma. Tutto il sistema Europa andrebbe rifondato. Certamente non ci aspettiamo medaglie per quello che facciamo, ma neanche che ci sequestrino una nave ogni volta che facciamo un salvataggio. Noi vogliamo soltanto operare in tranquillità”.
“Per tutto il viaggio nessuno ha creato disordini, fin da subito abbiamo spiegato loro passaggio per passaggio affinché capiscano che non sarà facile trovare un porto sicuro per lo sbarco, che sia in Italia o a Malta. Sicuramente abbiamo un’Europa malata, perché lasciare queste persone in mare dopo quello che hanno subito certamente non è normale. Noi con loro condividiamo, oltre ai pasti, anche ogni passaggio di quello che accade sulla terra ferma”.
Dopo lo sbarco di tutti i 98 naufraghi, il sequestro della Mare Jonio da Parte della Guardia di Finanza e la multa per 300 mila euro alla Ong. Oggi, in attesa del ricorso al TAR del Lazio presentato da Mediterranea, i volontari non si arrendono e continuano la loro attività di mare e di terra: “Un sequestro insensato. Abbiamo fatto ricorso al TAR del Lazio e siamo sicuri che ci darà ragione, ma questi decreti andrebbero aboliti. Intanto – conclude Stefano Caselli – stiamo rimettendo a posto la Mare Jonio, dopo ogni missione occorrono alcuni interventi di manutenzione e accorgimenti per migliorare la navigazione e l’attività di monitoraggio”.