Dal sudore nei campi di patate e pomodori in Mali, alle carceri libiche. La vita in fuga di Modibo che a Tripoli ha rischiato di morire sotto i colpi dei fucili: “Oggi studio e suono in un’orchestra, ma mi manca molto la mia famiglia. Sogno di aprire un forno o una pizzeria in Mali”
Nonostante la giovane età, Modibo, nome di fantasia, ha le idee chiare. Non chiede molto alla vita, soltanto di imparare un mestiere e di poter tornare dalla sua famiglia. È un ragazzo semplice, umile, timido, ma con una grande forza di volontà. In fuga a 15 anni dal Mali, non ha mai frequentato la scuola, neanche per un giorno. È partito senza saper leggere e scrivere: la scuola per lui era un lusso che non poteva permettersi. La sua infanzia è simile a quella di molti suoi coetanei maliani e ivoriani. Duro lavoro nei campi per poter mangiare. Sudore, caldo, afa, terra, zanzare e fatica. Fin da piccolo lavora nei campi di patate e pomodori insieme ai genitori. “Avevo sempre dolori alla schiena, perché passavo gran parte della giornata piegato a raccogliere ortaggi in campi che per me sembravano infiniti. Sotto il sole cocente insieme a tanti alti come me.” La madre portava le ceste piene del raccolto sulla testa, lui raccoglieva insieme al padre e al fratello più piccolo. “Tornavo a casa esausto, non avevo il tempo di giocare, non avevo altro impegno oltre al lavoro.”
Un giorno all’improvviso, il padre accusa un malore, si accascia e muore tra i campi. Il padre muore con la schiena spezzata lasciando Modibo e il fratello più piccolo da soli con la madre. Così iniziano i problemi per la famiglia. E si aggiunge la minaccia della guerra. C’erano omicidi ogni giorno, stragi, la guerra era arrivata anche nel suo piccolo paese. La paura di morire era concreta, soprattutto adesso che non c’era più il padre a proteggerli. “Avevamo molta paura, gli attacchi nei villaggi erano sempre più frequenti.”
Modibo inizia a valutare la possibilità di andare via, in Europa, per lavorare e imparare un mestiere. Insieme al fratello così decide di prendere un autobus e lascia il Mali. Arrivano ad Agadez, nel Niger, dove per due giorni cercano un modo per attraversare il deserto. Sapevano che se avessero raggiunto l’Algeria avrebbero potuto prendere uno di quei grossi camion che ogni giorno attraversano il deserto fino in Libia. Dal Niger partivano soltanto i fuori strada, e non era facile prenderne uno. Ma ci riuscirono, pagando con quel poco che avevano.
Salgono sul pick-up e si ritrovano così nel cuore del deserto della morte. Per diversi giorni Modibo, il fratello e alcuni ragazzi conosciuti durante il viaggio, restano a bordo del fuori strada, con pochissima acqua e niente cibo. “La nostra paura era quella di cadere, perché ci avevano raccontato che difficilmente gli autisti si fermavano a riprenderti. È stato davvero molto difficile psicologicamente, ma soprattutto fisicamente. Non pensavamo di dover affrontare tutti quei giorni nel deserto, siamo arrivati in Libia stremati, a stento riuscivamo a muoverci”.
Arrivano in Libia, a Tripoli, insieme ad altri ragazzi loro coetanei. Erano dei bambini, da soli, senza aiuto e denaro. Dopo alcuni giorni a girovagare lui e il fratello vengono assunti da un pastore libico. Si sarebbero occupati della fattoria. “Vivevamo in una stalla e ogni giorno dovevamo dare da mangiare alle mucche, alle pecore e ai cani”. Ma non durò molto. Una mattina, all’alba, si svegliarono non per dare da mangiare agli animali, ma per tentare di imbarcarsi per l’Europa. “Abbiamo raggiunto un gruppo di ragazzi e insieme siamo andati in una spiaggia. Siamo partiti su un barcone pienissimo, ma subito dopo la partenza dei militari libici (la cosiddetta Guardia Costiera libica) ci hanno bloccato in mare e arrestati tutti. Siamo stati portati in prigione.” Modibo e il fratello resteranno bloccati in prigione per 2 settimane. Un pezzo di pane ogni due giorni, pochissima acqua. “I libici volevano soldi, noi non avevamo più niente. Avevamo dato tutto per il primo viaggio.” Così partono le botte, le torture. Modibo stenta a rievocare i momenti passati nel lager libico, si limita a ripetere “mai più … mai più…”. Prende un lungo respiro, guarda nel vuoto dello stanzone in cui ci troviamo, come se stesse cercando un riparo dalle sue stesse parole e ripete a bassa voce: “non auguro a nessuno di finire in quel posto…”
Lentamente si asciuga gli occhi e riprende il racconto: “Ci picchiavano, tanto. Anche se eravamo piccoli. I ragazzi più grandi venivano torturati continuamente”. Modibo descrive quell’inferno durato per circa 15 giorni: “Uno stanzone grande con altre stanze un po’ più piccole. Eravamo oltre mille. Ne sono sicuro.” Donne, uomini, bambini, tutti ammassati e usati come bancomat. Dovevano pagare se volevano uscire. Non c’era alternativa. Una mattina però alcuni prigionieri provano la fuga; si erano organizzati per provocare una rivolta e tentare di scappare dal centro. Ma i libici li fermarono subito. “Hanno bloccato tutti e iniziato a sparare a caso su di noi. Ci hanno sparato addosso. Ho davvero pensato di morire.” Modibo chiude gli occhi, il fratello era sempre vicino a lui. A terra tanti corpi. Sangue. La morte li ha sfiorati per pochi centimetri. Vivi per miracolo. Altri invece caddero inermi sotto il fuoco dei carcerieri, in uno dei tanti lager libici.
Restano per alcuni giorni, ancora sconvolti per quell’episodio. Ma nonostante tutto alcuni ragazzi riescono a scappare in un momento di trambusto tra i carcerieri, qualche giorno dopo la prima rivolta. Lui e il fratello vengono aiutati a fuggire. Ma il fratello, insieme ad altri ragazzi, non vuole più rischiare. Così con un piccolo gruppo decide di tonare indietro e di affrontare il viaggio di ritorno a casa. Modibo così si separa dal fratello, di lui non avrà più notizie per mesi.
Insieme al secondo gruppo raggiunge la spiaggia e attende qualche giorno. Trovato il punto indicato da altri ragazzi, decidono tutti di partire per l’Europa. “Non avevo soldi, però mi hanno aiutato lo stesso a imbarcarmi su un grosso gommone strapieno. Eravamo tantissimi, più di 120 tra uomini, donne e bambini.”
Anche il viaggio in mare è stato terribile. Una delle esperienze più drammatiche della sua vita. “Per diversi giorni abbiamo affrontato un mare sempre più grosso”. Il mare, uno strano “mostro” per Modibo. Lui non sapeva nuotare ed era terrorizzato. Il secondo giorno, a peggiorare le loro condizioni, anche l’arrivo della pioggia. Freddissima, penetrante, martellante. Sul gommone regnava il terrore, nessuno parlava, qualcuno in fondo forse pregava, non riusciva a capire bene. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Nessuno più governava la barca, erano alla deriva in mezzo a un temporale. “Eravamo tutti bagnati, sul gommone non c’era nessun riparo. Tremavo, ma non capivo se per il freddo o per la paura.” Il terrore si fondeva con la pioggia battente, e Modibo voleva essere altrove. Si malediva di non essere andato con il fratello dalla parte opposta. Anche se di lui non aveva ancora notizie.
Bagnati, stremati, quasi in ipotermia, vengono salvati da una ong spagnola. Modibo si sente finalmente al sicuro. Con dei vestiti asciutti e un pasto caldo, piangeva per la commozione. Non aveva pianto molto fino a quel momento, le sue erano lacrime di felicità, di liberazione, di vita. Ma soprattutto non mangiava un pasto vero da parecchio tempo.
Oggi Modibo ha 18 anni, e si trova in Italia da 2 anni. Uno dei tanti minori non accompagnati che hanno raggiunto le coste europee per fuggire ai lager libici. Sbarcato a Messina dopo il salvataggio, viene poi condotto a Mazara del Vallo e infine, pochi mesi fa, a Marsala. Dopo alcuni mesi dal suo arrivo in Italia apprende che il fratello è riuscito a tornare a casa, dopo un viaggio terribile. Felice per questa notizia inizia a frequentare la scuola, fino a quel momento a lui sconosciuta.
Oggi frequenta l’Alberghiero e sta imparando a fare la pizza. “Qui in Italia ho studiato per la prima volta. Dopo la licenza media adesso sto studiando per diventare un bravo pizzaiolo. Qui sto bene, e ho trovato una seconda famiglia: la Libera Orchestra Popolare di Marsala.” Frequenta il centro sociale di Sappusi e da qualche settimana è uno dei nuovi componenti dell’orchestra che coniuga integrazione, fratellanza e musica. “Mi sento veramente in famiglia, per me sono dei punti di riferimento. Non smetterò mai di ringraziarli.”
“Oggi ho un regolare permesso di soggiorno e mi sento bene, ma un giorno vorrei tornare a casa per stare vicino alla mia famiglia. La minaccia della guerra è sempre dietro l’angolo, ma voglio stare con loro. Prima però voglio imparare il mestiere di pizzaiolo e di panettiere, e magari poter aprire una pizzeria tutta mia in Mali.”
La prossima storia sarà pubblicata domenica 16 febbraio 2020.
Foto di Copertina: Mediterranea, 2019