Strage casermetta Alcamo Marina: ancora quarantaquattro anni lontani da verità e giustizia

Oggi, come ogni anno, si celebra l’anniversario della strage della casermetta di Alcamo Marina. Una ferita tristemente aperta da quarantaquattro anni che non vedrà la sua rimarginazione senza il raggiungimento della verità e giustizia.

Per comprendere meglio ciò che è accaduto occorre tornare indietro con il tempo ad Alcamo Marina, in una notte d’inverno tra il 26 e il 27 Gennaio del 1976, quando, due carabinieri, in servizio presso la stazione “Alkamar”, furono sorpresi durante il sonno e barbaramente uccisi. Quella notte persero la vita Carmine Apuzzo, diciannovenne, originario di Castellammare di Stabia (Napoli), e l’appuntato Salvatore Falcetta, trentacinquenne di Castelvetrano.

A distanza di quarantaquattro anni, quello che accadde di preciso quella notte ed il movente per cui è accaduto restano per gran parte avvolti nel mistero. Le poche informazioni certe su ciò che è accaduto in quei giorni sono: la morte dei due militari colpiti da arma da fuoco, la scoperta fatta all’alba dagli agenti della scorta di Giorgio Almirante in transito verso l’aeroporto, la scena del delitto descritta all’arrivo dei Carabinieri della Compagnia di Alcamo e la registrazione-rivendicazione a poche ore dalla strage di un presunto gruppo terroristico Nucleo Sicilia Armata. Nelle ventiquattro ore successive, superato lo sgomento iniziale per quanto accaduto, l’attenzione si rivolse tutta alla ricerca dei colpevoli e delle motivazioni che hanno portato all’assalto di una struttura militare italiana (il primo agguato finora dal dopoguerra ad una caserma nel territorio italiano).

Va detto, però, che il contesto storico alcamese già in quel periodo brulicava di tensione, infatti, appena un anno addietro furono assassinati nel 1975 il consigliere comunale Antonio Piscitello (Aprile 1975) e l’Assessore ai lavori pubblici della Democrazia Cristiana, già Sindaco in passato, Francesco Paolo Guarrasi (25 maggio del 1975). Entrambi uccisi con la stessa pistola, una calibro 38. Pochi settimane dopo questi due omicidi, nel giugno del 1975, qualcuno in piena notte sparo dei colpi di arma da fuoco nei confronti di una pattuglia dei carabinieri. Nessuno venne successivamente identificato come autore del gesto.

Il caso fu subito affidato al colonnello Giuseppe Russo, braccio destro del Generale Dalla Chiesa, all’epoca capitano del nucleo operativo di Palermo. Russo venne poi assassinato, l’anno successivo (20 Agosto 1977), da un commando mafioso, guidato da Leoluca Bagarella, nella frazione di Corleone denominata “Ficuzza”.

Le prime indagini dell’allora Capitano Russo si concentrarono subito sulla pista rossa, anche a seguito del messaggio ricevuto poche ore dopo la scoperta dei due cadaveri da un centralinista del quotidiano La Sicilia: “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro.  Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”. Il messaggio venne firmato dal Nucleo Sicilia Armata.

Un messaggio di rivendicazione, avvenuto a poche ore dal delitto, che misero in luce dei particolari che potevano essere a conoscenza soltanto di qualcuno presente sulla scena del crimine. Sulla base di questa prima ipotesi le indagini si concentrarono su diverse persone legate agli ambienti di sinistra considerate “teste calde”, dal Partito Comunista ad altri movimenti operai e di lotta. Tra questi venne perquisita l’abitazione del giovane Peppino Impastato a Cinisi. Poco dopo, però, la pista rossa venne gradualmente abbandonata sulla base di una secca smentita da parte delle Brigate Rosse, avvenuta il 30 Gennaio del 1976. Abbandonata la pista legata al mondo politico di sinistra, rimane comunque quella del terrorismo (in Sicilia c’erano diversi gruppi di destra legati alle cosche locali) e degli uomini di cosa nostra locale. Ad Alcamo in quel periodo Cosa Nostra era affidata alla famiglia Rimi. Nel frattempo del neonato movimento “Nucleo Sicilia Armata” non si seppe più nulla, dopo il 27 Gennaio sembrò sparire nel nulla.

La svolta nelle indagini arriva circa quindici giorni dopo, tra il 12 e il 13 Febbraio 1976, con l’arresto, durante un posto di blocco dei carabinieri, del giovane alcamese Giuseppe Vesco. Il ragazzo fu fermato mentre si trovava alla guida di una 127. Le forze dell’ordine, a seguito di una perquisizione in auto e nell’abitazione del Vesco, trovarono l’arma utilizzata durante l’agguato e una pistola d’ordinanza rubata ai due militari. Vesco a seguito di un duro interrogatorio, in cui i militari non andarono per il sottile, confessò di aver partecipato all’agguato, indicando il covo dove nascosero la refurtiva e i quattro ragazzi che parteciparono con lui all’agguato. Tre di questi erano dei suoi amici di Alcamo: Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. L’ultimo chiamato in causa è Giovanni Mandalà un conoscente di Partinico. Poco dopo, sulla base della testimonianza di Vesco, vennero ritrovate le armi e le divise in una stalla a Partinico di proprietà di Giovanni Mandalà.

Vesco, successivamente alla confessione e ai mandati d’arresto per i quattro presunti complici, cerca di smentire tutto informando che la confessione gli venne estorta sotto tortura. Fino alla fine dei suoi giorni tenta di scagionare i giovani indiziati, senza riuscirci. Nell’ottobre dello stesso anno (26 Ottobre 1976) viene però trovato suicida in circostante misteriose presso il carcere San Giuliano di Trapani, poco prima di essere ascoltato dagli inquirenti.

Tutti e quattro i giovani (quasi tutti diciottenni), dopo l’assoluzione in primo grado e la temporanea scarcerazione, furono condannati. Per  Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà fu disposto l’ergastolo, mentre per Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli a 20 anni di reclusione. Questi ultimi due, nel frattempo, fuggiti in Brasile ottenendo lo status di rifugiati.

Ma i dubbi sul reale coinvolgimento dei quattro giovani in città furono tanti. Che Vesco avesse un coinvolgimento diretto con la strage è provato dai tantissimi indizi che ricadono sulla sua persona. Ma gli interrogativi in città andavano via via moltiplicandosi: il giovane Vesco, insieme a quattro giovani inesperti, poteva compiere un agguato del genere? E se per caso fossero in qualche modo coinvolti, erano manovrati da qualcuno per altri scopi? Sono attendibili le confessioni di Vesco ottenute sotto tortura?.

A complicare la matassa si aggiungono i dubbi derivanti dal rapporto-dossier di Peppino Impastato in cui si racconta che la strage fu organizzata da apparati deviati dei servizi segreti. In realtà una decina di anni dopo venne documenta la presenza di Gladio sul territorio trapanese, con l’esistenza di un misterioso Centro Scorpione. Secondo alcune ipotesi questa esisteva già dal 1976 e fu in qualche modo coinvolta nella strage della casermetta. L’ipotesi è quella che i carabinieri avrebbero fermato un furgone contenente armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Di lì a poco i militari vennero uccisi e fu organizzata una messinscena all’interno della casermetta per depistare gli investigatori e non far scoprire la presenza di Gladio.

Negli anni successivi, però, scese il sipario sulla strage della casermetta. I colpevoli rimasero i cinque giovani: due detenuti in carcere, due in brasile e uno morto suicida. Sembra tutto risolto, manca solo il movente. La pista del terrorismo rosso, il Nucleo Armato Sicilia, la cellula di Gladio, gli uomini di cosa nostra, tutto cadde nell’oblio.

Nel 2007, improvvisamente, si ritorna a parlare della Strage di Alcamo Marina, un ex maresciallo dei Carabinieri, Renato Olino, in servizio ad Alcamo all’epoca dei fatti, testimoniò spontaneamente ai magistrati le modalità con cui sono state condotte le investigazioni e ottenute le confessioni. Questa testimonianza portò ad un immediato processo di revisione.

La conclusione del processo di revisione portò all’assoluzione, il 13 febbraio del 2012, dinanzi alla Corte di Appello di Reggio Calabria, di Giuseppe Gulotta. Si legge nella sentenza della Corte: Giuseppe Vesco, il chiamante in correità, è stato torturato, la sua chiamata in correità, dunque, è illegale, Gulotta Giuseppe ha confessato dopo essere stato picchiato e minacciato dai Carabinieri, violati fondamentali diritti dell’uomo. Il 20 luglio 2012 la sezione per i minorenni della corte d’appello di Catania assolve Ferrantelli e Santangelo (minori di 18 anni all’epoca). Nel 2014 la corte d’appello di Trapani ha assolto ufficialmente post-mortem – riabilitandolo – anche Giovanni Mandalà.

Sentenze che vanno sicuramente rispettate e accettate ma che lasciano ancora aperte delle ferite lunghe quarantaquattro anni. Adesso, si brancola nel buio più di prima. Il processo di revisione, infatti, si è basato sulle confessioni ottenute tramite atti di violenza, fatti senz’altro deplorevoli e da condannare, però non sono state prese in considerazione, durante il processo, le analisi probatorie dell’epoca. Oggi forse si potrebbe ripartire da lì, da quelle armi trovate in possesso da Vesco, dalle divise nella stalla di Mandalà, dalle loro amicizie, dai rapporti e dalle relazioni non portate a processo e da tutto quello che ancora è possibile ritrovare all’interno degli archivi giudiziari. La risposta si potrebbe ancora trovare negli indizi probatori e nelle carte in possesso dello Stato. Forse, ad oggi, è l’unica strada percorribile se si vuole davvero raggiungere la verità sui fatti e far riposare in pace i due militari che con onore e lealtà, fino a perdere la vita, hanno servito lo Stato e la divisa che tanto amavano.

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Marcello Contento nasce a Palermo nel 1982, vive la sua vita tra la Sicilia e la Toscana. Giornalista, insegnante di economia aziendale e lettore incallito di Tex e Alan Ford.