La vicenda della strage di Alcamo Marina torna nuovamente a far parlare di sè. Dopo le dichiarazioni dell’ex sottufficiale dei carabinieri, Renato Olino (che nel 2007 dichiarò che le confessioni furono ottenute a seguito di terribili torture effettuate dai carabinieri), è infatti riparta la revisione del processo di uno dei condannati per quella strage, Giuseppe Gulotta, e stessa cosa avverrà a breve per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all’estero prima che la condanna diventasse esecutiva. Questo ha comportato l’aggiungersi di nuove confessioni e di nuove indagini riferite a quella strage che, nel 1976, ha riempito le pagine dei quotidiani siciliani (e non solo) di una triste vicenda di cronaca nera.
La notte del 27 Gennaio di quell’anno Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta persero la vita, per mano di alcuni uomini che fecero irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. Il primo ad essere fermato per l’attentato fu un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, che dopo qualche giorno venne trovato in possesso di un’arma in dotazione ai carabinieri e, in seguito alle perquisizioni, venne rinvenuta presso la sua abitazione anche l’arma utilizzata per compiere il delitto. Il giovane però si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni effettuate sul giovane dai carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), si dichiarò facente parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. Dopo poco tempo ritrattò nuovamente tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto soltanto a seguito di torture, nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come sono state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovament eascoltato dagli inquirenti venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che Vesco aveva un arto monco a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche dalle rivelazioni a livello nazionale in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe pertanto affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Tale racconto si lega perfettamente con quanto di recente affermato da altri due pentiti, Leonardo Messina e Peppe Ferro. Il primo racconta: «seppi che era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni ubicate in vari Comuni della Sicilia e che poco tempo prima che scattasse il piano era arrivato il contro ordine, bisognava soprassedere, ma la notizia ad Alcamo non era arrivata e perciò la casermetta era stata assaltata lo stesso». Anche quanto affermato dall’alcamese Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse gravanti sulle loro spalle: «Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati erano solamente delle vittime…pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto». A questo punto al versione che fà capolino dalle piege del tempo diventa sempre più complessa e fa rientrare l’omicidio dei due giovani agenti Apuzzo e Falcetta in uno scenario molto più complesso di quello che ci si potesse aspettare. Si inizia anche a vociferare di un presunto coinvolgimnto nella vicenda della “Gladio” (nome in codice di una struttura paramilitare clandestina promossa durante la guerra fredda dalla NATO e presente in provincia di Trapani), usata per far passare da una punta all’altra dell’Italia, carichi di armi o di rifiuti tossici, destinati poi a paesi esteri. Tale organizzazione si lega all’omicidio per una casualità: i due agenti fermano un furgone ad un posto di blocco: il veicolo trasportava armi di Gladio. Pertanto è probabile che nella casermetta fu organizzata solo una messainscena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi, perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta.