La mattina del sabato spesso rimango da solo a casa, mia moglie è al lavoro, mia figlia a scuola, il figlio maggiore generalmente rimane a Palermo anche nei fine settimana. Questo sabato poi, Marilena non rientrerà per pranzo, un corso di aggiornamento in un hotel di Bagheria la tratterrà fuori fino a sera ed Elena è scesa con gli zii e la cugina Viola ad Alcamo Marina, la raggiungeremo domani. Così ho tanto tempo davanti a me e mille cose da fare, da sistemare, da rassettare dentro casa e in giardino. Stamani mi sono alzato di buonora per far trovare a Marilena una tavola bene apparecchiata per la colazione (caffè, orzo, miele, biscotti e latte con la schiuma), poi l’ho svegliata e osservata mentre ingurgitava tutto rapidamente in attesa della collega assieme alla quale avrebbe viaggiato. Un saluto frettoloso e via, se n’è andata raccomandandomi di fare la barba, che pungo.
Solo. Mi dirigo verso il bagno per accontentare mia moglie, poi mi fermo a osservare quell’estraneo che mi rimanda lo sguardo dalla cornice dello specchio. Certi giorni davvero non mi sento rappresentato da quell’immagine, sono i giorni peggiori in cui l’età si vede tutta, o forse è solo distacco, differenza tra ciò che ci si sente e quello che è rappresentato dal viso. “Non mi somiglia per niente” direbbe Johnny Stecchino. Dev’essere una suggestione del libro che sto leggendo, L’uomo duplicato di Saramago, più assurdo e paradossale del Sosia di Dostoevskij, il libro del dialogo immaginario, l’ho battezzato. Così inizio a radermi, ma la pelle liscia e pulita che viene fuori dalla schiuma bianca invece di rassicurarmi sul mio aspetto aumenta il senso di estraneità dal “doppio” nello specchio. Ancora un’occhiata stupefatta alle sembianze altrui che sembrano rispondere ai miei comandi, poi mi allontano deciso a non lasciarmi suggestionare dal libro e dalla mia immaginazione (una parola derivata da immagine, specchio dell’inconscio?), per oggi deciso a non specchiarmi più.
Mi aggiro però senza decidermi se trapiantare le begonie del balcone, strette in vasi che le costringono a continue fioriture (almeno così mi pare) o favorirne la crescita fogliare in contenitori più grandi. Nell’indecisione potrei occuparmi dell’armadietto del bagno da svuotare del tutto per riparare i pianali mezzo smontati, prima però dovrei mettere sotto carica l’avvitatore sempre a corto di batteria. Oppure decidermi a sistemare con metodo i mille libri sparsi per casa, dedicando alcuni pianali a quelli di lavoro e ai saggi e altri scaffali e mensole a romanzi, guide di viaggio e pubblicazioni scientifiche. Vago guardando interdetto gli oggetti che attendono una mia decisione, ognuna delle prospettive comporta una certa organizzazione e duratura determinazione. Inutile iniziare se non ho la certezza di portare a termine l’operazione. Non l’ho. Sarà colpa dello specchio, eppure mi ero alzato con buoni propositi. Le mie pantofole si dirigono verso la postazione del computer. Apro la cartella “Immagini” sotto “Documenti” e cazzeggio un po’ con le fotografie ancora da sistemare, poi mi perdo in quelle più antiche. Mi sento Simon Bolivar nel lungo racconto dell’amato Marquez, Il generale nel suo labirinto, dove il “libertador”, nel suo esilio sul Río Magdalena, ormai stanco, fa un viaggio a ritroso nei ricordi, tra volti conosciuti e amati, amori finiti e indimenticati, amicizie tradite.
Poi mi viene in mente che anche Marquez parla di un doppio, un sosia, in un altro suo libro, forse il più bello, L’autunno del patriarca (forse per questo inconsciamente avevo associato Marquez). Non ricordo il nome e do un’occhiata su internet. Il personaggio è Patricio Aragones, sosia ufficiale del generale spesso usato nelle apparizioni pubbliche al suo posto, il cui carattere prima gaudente e amante della vita si trasforma presto in ombroso e malfidente, corrotto dall’esercizio del potere, tanto da maledire sul letto di morte lo stesso generale, che pur concedendogli ricchezze ed onori, lo aveva condannato ad una vita di solitudine.
Altre notizie sul romanzo letto anni fa. Il ‘generale’ protagonista del romanzo rappresenta il ‘tipico’ autocrate sudamericano, insensibile alle sofferenze del suo popolo, capace solo di imporre con ogni mezzo la propria volontà. Ad ogni costo. Si tratta di regimi dittatoriali basati sul paternalismo e sul culto della personalità; esempio banale è la figura della madre, Bendicion Alvarado, esaltata dalla propaganda del regime tanto da attribuirle poteri soprannaturali e volerla santificare dopo la morte ma duramente riportata alla realtà di semplice donna del popolo dalle indagini della Chiesa sulla sua effettiva santità.
Mi ricorda qualcuno di molto attuale questo dittatore in declino, qualcuno che anche i suoi fedeli raccontano come un uomo malato di solitudine che pensa che tutto si possa comprare.
L’aspetto inquietante per noi è però la fine descritta nel romanzo. È il suo un tramonto squallido e impersonale, terrorizzante e paralizzante, fatto di malanni fisici e di incubi, di isolamento e di terrore e si trascina in mezzo a rovine irreparabili, soffocato da odori pestiferi, dentro una putredine maleodorante e fetida.
E’, soprattutto, una fine che non finisce mai. Che sembra esaurita ma che sempre riesplode in atti sanguinari e in massacri ingiustificabili. Il patriarca-dittatore sembra morto, viene anche dichiarato morto, il suo palazzo è profanato e lordato dagli uomini e dagli animali, eppure i suoi ordini disumani trovano sempre dei solerti esecutori tanto da far pensare non tanto e non più ad una persona in carne ed ossa ma quasi ad una teoria di individui che, nascosti nei recessi più reconditi e inaccessibili dei palazzi governativi, perpetuano l’insondabile e ‘necessaria’ brutalità del potere.
In un momento di umanità lo scrittore diventa consigliere del patriarca, un suggerimento che anch’io mi sento di dare all’uomo più potente d’Italia: ‘ … ne approfitti invece per guardare in faccia la verità, signor generale, perché sappia che nessuno le ha mai detto quel che pensa davvero e invece tutti le dicono quello che sanno che lei vuole sentire mentre le fanno inchini davanti e tengono la pistola dietro la schiena…’
Lui forse è semplicemente un doppio del popolo italiano, l’incarnazione del nostro spirito che una Casa degli Specchi particolarmente dispettosa (la televisione) ci rimanda alterando la prospettiva, dove la nostra immagine distorta, prima grassa e bassissima poi spilungona ed esile, oppure addirittura con la testa sottosopra, si prende gioco di noi in un ridicolo rimando di specchi. Ridicolo ma pericolosissimo, perché dal labirinto si fa fatica ad uscire.
Nella casa degli specchi del Luna Park; tutto reale ma niente lo è, tutto è davanti ai nostri occhi ma niente è quello che sembra. Corpi deformi, labirinti da percorrere che però qualcuno ha disegnato per te, sembrano divertirti, ma ti portano dove qualcun’altro ha deciso che dovrai andare. E dove addirittura un’intera scolaresca è proprio ieri scomparsa…
P. S. Infine qualcosa da fare l’ho trovata, cari lettori …