Palermo – È una questione di lettere. Come ne “La lettera rubata”, il racconto di Edgar Allan Poe, nascoste ben in vista. Ma finalmente ritrovate. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, insieme ai pm Nino Di Matteo, Paolo Guido, e Lia Sava, continuano la loro indagine nel procedimento al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati della mancata cattura di Bernardo Provenzano. Adesso con alcune armi in più. Durante il procedimento, infatti, le indagini hanno scoperto una serie di indizi che portano alla chiarificazione di uno dei periodi più bui del nostro Stato. L’anno è il 1993, all’indomani delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, in cui vengono trucidati i giudici Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i loro agenti di scorta. Già due anni prima, nel 1991, il generale Mario Mori aveva incontrato Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo tramite fra istituzioni statali e mafia, il quale gli avrebbe consegnato una lista (il famoso “Papello”) di richieste che l’organizzazione mafiosa rivolgeva allo Stato. La lettera, consegnata dal figlio di Ciancimino nel 2009, è nelle mani dei pm, e contiene fra le varie richieste l’abolizione del regime di carcere duro, il cosiddetto “41 bis” (dalla legge in cui è contenuto). Inizia da quel momento una serie di vere e proprie intimidazioni nei confronti dello Stato da parte della organizzazione mafiosa, e le due stragi siciliane, se non hanno l’intimidazione come scopo principale, comunque completano il quadro. Di questo quadro fa parte un’altra lettera del Febbraio 1993, diretta all’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e “per conoscenza” al giornalista Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze e al Papa. Tutti simboli che verranno colpiti direttamente o meno, nei mesi successivi, da vari attentati: l’attentato a Maurizio Costanzo del 14 Maggio, le autobombe a Firenze il 27 Maggio e a Roma e Milano nella notte tra il 27 e il 28 Luglio. La lettera contiene le lamentele di alcuni familiari dei detenuti e con fare a tratti intimidatorio (“Per noi e per loro resta solo la consolazione che, un giorno, Dio che ha più potere di Lei, sarà giusto nel Suo giudizio; giudicherà tutti”), chiede l’abolizione del regime del 41 bis. Ma il Presidente Scalfaro e gli altri interessati non mostrarono cedimenti.
Pochi mesi dopo però, l’allora ministro della giustizia, Giovanni Conso, non rinnovò le norme relative al “carcere duro” per 334 detenuti. Secondo le sue dichiarazioni questa decisione fu presa a titolo personale, senza nessun dibattito all’interno delle istituzioni.
Adesso, nuovi documenti, presentati dal magistrato catanese Sebastiano Ardita, ex capo della Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia (il “Dap”), sembrano smentire queste affermazioni. In particolare si tratta sempre di una lettera, quella fatta pervenire dall’allora direttore del Dap Adalberto Capriotti al ministro Conso, in cui si ricorda l’imminente necessità di rinnovare la norma 41 bis, suggerendo che il mancato rinnovo sarebbe un segnale di distensione nei riguardi della mafia.
I pm di Palermo hanno riconvocato gli ex ministri della Giustizia e dell’Interno Conso e Mancino per avere chiarimenti, e ieri hanno ascoltato Giuseppe La Greca, ex capo di gabinetto di Conso, e l’ex ministro Vincenzo Scotti.
L’ipotesi della Procura è che in molti, tra politici e uomini delle istituzioni, hanno mentito durante i precedenti interrogatori mettendo su una grande bugia di Stato per coprire quella che sempre di più sembra una precisa trattativa tra lo Stato e Cosa nostra.