Dopo un bel discorso convincente
di solito v’è il plauso della gente,
che stipata come in una pollaia gabbia,
fa massa ad applaudire il proprio concorrente
e a mugugnare di repressa rabbia
contro il nemico, l’avverso, il perdente.
Che importa se non trovasi concetto,
se quanto detto poi non viene fatto,
se addirittura al posto di promesse
al civico consesso ormai ridotto
a questuanti e servi, si parlasse
d’incarichi, poltrone e posto adatto.
Così in quel che chiamo mio paese,
per quanto il pensiero più borghese
anelerebbe definire cittadina,
ché i numeri ci sarebbero e le chiese,
ma ancora per tal razza contadina
con il baston si lavano le offese.
Vedremo chi sarà poi il vincitore
dell’estrema tenzone e dell’onore
allora, lo diciam senza modestia,
tra uomini trionfanti e di valore
sul carro alato e degno della bestia
troverete il vostro umile cantore.
Ma non saremo i soli, ché son tanti
i prezzolati, i grulli, i prepotenti,
che accorrono al grido di vittoria,
pregando un giorno in terra e uno ai santi,
la lotta per le briciole che infuria,
son sempre più di quanti ne accontenti.
Scusate se la forma non vi aggrada
se faticate a leggere la rima
o se pensate un gioco la mia trama,
ma perché ciò che scrivo non vi leda
con letterato stile mi do un tono
che serva alfine a togliermi d’impaccio.
(Menando vo’ ‘sti versi a casaccio,
come rumen cesoia nel giardino.)