Palermo, vent’anni dopo, la strage di Via D’Amelio.

Palermo. 19 Luglio 1992. Un pomeriggio estivo, come la città siciliana sa regalare. Ma quel giorno non fu un regalo. Erano passati quasi due mesi dalla strage di Capaci, in cui la mafia aveva barbaramente ucciso il giudice Falcone, la moglie e gli agenti della scorta. Un uomo, un collega, un amico di Falcone, il giudice Paolo Borsellino, torna a casa, va a trovare la madre in quel caldo pomeriggio di Luglio.

La mafia colpisce ancora.

Un boato, una 126 piena di tritolo, e le vite di Paolo Borsellino e di cinque dei suoi agenti di scorta vengono spezzate. Palermo da allora è una zona di guerra.

Borsellino sapeva. Chi lo conosce bene racconta quei 57 giorni fra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, come giorni di indagini e attività.

Devo fare presto, perché prima o poi sarà il mio turno”.

Borsellino conosceva il suo destino. Ma proprio per questo Borsellino non si diede per vinto, e continuò a lottare contro quell’organizzazione che di lì a poco lo avrebbe ucciso. Avrebbe potuto fermarsi, ma allora non sarebbe stato uno dei difensori, non avrebbe potuto alzare quella barricata contro l’assedio della Mafia, che ancora oggi continua a resistere. Esile, ma indistruttibile, perché innalzata sulle idee e sul sangue degli eroi. Per questo gli eroi non devono essere dimenticati; per questo noi abbiamo il dovere di ricordare.

Per questo la strage non può rimanere impunita.

Rimangono ancora molte zone d’ombra nell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, un’inchiesta che ancora non ha chiarito in che modo Borsellino venne a conoscenza della trattativa Stato-Mafia dopo la morte di Falcone, e come opponendovisi decretò la propria condanna.

Un’ inchiesta che deve chiarire mandanti ed esecutori, che deve trovare un’agenda rossa (e il colore non è distintivo politico), l’agenda con gli appunti di Borsellino.

Da allora sono passati vent’anni. Vent’anni in cui la Mafia non è di certo morta, vent’anni in cui la guerra contro i cittadini è diventata sommersa, ma non per questo meno pericolosa per la società civile.

Perché Palermo è ancora sotto assedio: non più bombe ma colletti bianchi, non più stragi, ma pizzo e collusione col mondo politico.

I 20 anni da quel giorno servono a non farci dimenticare, a far crescere quel movimento di rivolta che da allora non si è fermato, che dà alla città di Palermo una speranza per il futuro: la speranza che un giorno, la guerra sommersa contro un modo di pensare, d’agire e d’essere che può portare solo alla distruzione di ogni tipo di società civile venga vinta da chi vuole vivere in una società sana, senza Mafia.

Questa è la speranza di chi vent’anni fa c’era, e non può dimenticare l’aria che gravava su Palermo in quei maledetti giorni d’estate, ed anche di chi non c’era, ma non sopporta un mondo fatto d’omertà e paura.

Loro sono morti per proteggerci, noi abbiamo il dovere di ricordarli.

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