Li chiamiamo clandestini

Camminando per le strade di ogni paese, ci rendiamo sempre più conto di quanto siamo diventati multietnici. L’Italia da anni è diventata “rifugio” per molti immigrati che giungono nel nostro Paese per trovare fortuna, o meglio per cercare di avere una vita migliore di quella che il loro Paese non può più garantire. Molti sono rifugiati politici provenienti prevalentemente dal nord Africa, quindi dai paesi del Maghreb. Tunisini, marocchini, libici… tutti in cerca di lavoro o qualcosa di simile per sopravvivere. Ma non sono solo loro a giungere in Italia, ci sono anche cinesi, indiani, bengalesi, rumeni, tutti con storie diverse ma nello stesso tempo molto simili.
Spesso incrociamo per strada il loro sguardo ma non ci interessa affatto quello che hanno da dirci, specialmente se vogliono lavarci il vetro della macchina, oppure cercano di venderci fazzoletti, accendini, ombrelli, li trattiamo con indifferenza. Per molti sono solo clandestini che non vogliono lavorare onestamente. È proprio questa la frase che sentiamo dire spesso a chi parla di loro in giro per le città; ma nessuno, o meglio quasi nessuno, ha mai provato a chiedere loro qualcosa, o semplicemente il proprio nome. Sicuramente a qualcuno non interesserà leggere queste righe che cercano di raccontare delle storie molto vicine alle nostre ma che per abitudine ormai ci negano e vengono ignorate. Storie di uomini e donne, storie di bambini, ragazzi, studenti e non, fuggiti dalla propria casa in cerca di un cambiamento. Molte ragazze, come abbiamo potuto apprendere dalle cronache più recenti, finiscono per entrare in giri di prostituzione, altre schiave. Come finiscono schiavi gli uomini e i giovani che lavorano nei campi di agricoltori italiani e anche siciliani, per la racconta di arance, limoni, pomodori, tutti costretti in schiavitù.
Per noi molti di questi che incrociamo per strada sono solo clandestini che non meritano la nostra attenzione. Ma pensando ciò tralasciamo un importante fattore. Questa forte immigrazione verso l’Italia, o comunque verso l’Europa, è la stessa che ci ha colpito negli ultimi anni del 800 e poi nei primi del 900 quando una gran numero di uomini e donne si spostarono dall’Europa verso l’America in cerca di fortuna.
Fortuna condivisa con chi restava nel paese d’origine. Questo ha permesso la diffusione dell’alfabetismo e della cultura. Oggi sta accadendo la stessa cosa. Chi fugge dal proprio paese per raggiungere il nostro, lo fa per disperazione e per garantire una vita dignitosa a figli e nipoti rimasti nel paese d’origine e che vivono in situazioni di assoluta povertà. Per molti aspetti questo succede anche in Italia, visto che la povertà è cresciuta a dismisura in questi ultimi anni (e continua a crescere). Spesso chi giunge nel nostro Paese si accontenta dei lavori più umili, per alcuni addirittura considerati sporchi. Badanti, muratori stranieri, si accontentano di poco, quello che per noi è diventato poco. Ecco anche spiegato “l’odio” verso molti di essi, accusati, a dire di molti, di rubare il lavoro agli italiani. Spesso non ci rendiamo conto che quando additiamo
queste persone nello stesso tempo, indirettamente, accusiamo i nostri nonni, bisnonni, parenti lontani e recenti, che in passato hanno lasciato il Paese per cercare fortuna altrove. I grandi processi di emigrazione che hanno interessato l’Europa il secolo scorso, hanno portato anche alla meridionalizzazione del nord.
Oggi invece viviamo nel paradosso, i meridionali del nord disprezzano il sud, considerandolo una palla al piede, ripudiando così la propria terra d’origine.
I flussi di migrazione, oggi, spostano milioni di persone dai paesi più disagiati verso i paesi europei, soprattutto Italia, Francia, Spagna, Germania e Inghilterra. Questi enormi flussi portano, oltre alle famiglie disperate, anche le organizzazione criminali del luogo che spesso entrano in conflitto o in collaborazione con le organizzazioni criminali locali come la camorra, la mafia e la ‘ndrangheta. Oggi infatti la mafia cinese in Italia è fortissima.
Tornando a parlare dalle tante storie che ci scorrono veloci ogni giorno davanti agli occhi, vorrei cominciare con quella di M. A. B. giovane ventunenne che vive a Palermo da circa 2 anni. Giunto dal Bangladesh da solo, trascorre le sue giornate alla stazione centrale di Palermo vendendo oggetti di vario genere. La sua è sicuramente una storia molto particolare. Infatti racconta di aver iniziato gli studi di Scienze Politiche presso la National University in Dhaka, ma a causa di una grave crisi che ha colpito la sua famiglia è stato costretto a emigrare in cerca di fortuna. Lui avrebbe voluto tanto proseguire gli studi, ma la famiglia non poteva più permettergli la retta universitaria, così costretto ad abbandonare comincia la sua avventura nelle città italiane. Oggi guadagna circa 10/20 euro al giorno, appena sufficienti per garantirgli un vita più o meno dignitosa. Suo padre pensionato, sua madre non ha trovato lavoro e suo fratello si arrangia in qualche modo lavorando in Bangladesh. Quando racconta la sua storia, si vede chiaramente la sofferenza con cui parla della sua terra e della sua famiglia, triste di essere così distante. Non era questa la vita che sognava. Mi confida che avrebbe tanto voluto continuare l’Università e continuare la sua vita bangladese.
Poi c’è S. D. giovane camerunense che gira per i vari supermercati di Palermo aiutando a spingere i carrelli carichi di borse per la spesa fino alle auto e porta anche le borse dei clienti fino a casa in cambio di qualche moneta. Anche lui è partito da casa giovane perché il padre non riusciva più a sfamare la sua famiglia.
A Milano tra Piazza Duomo e il Castello Sforzesco, vende braccialetti Said, giovane malese che ha girato quasi tutte le città italiane: Napoli, Trapani, Palermo, Roma e tante altre. Ha tanti fratelli, tutti divisi tra Italia e Francia. Da quando è partito dal Mali non è mai riuscito a tornarci.
Altrettanto simile è la storia di A.B. ragazzo di 29 anni che da poco più di un anno vive a Palermo dopo aver trascorso qualche tempo a Torino, Grosseto, Salerno e altri centri italiani, vendendo, come molti altri, oggetti di vario genere. Anche lui vorrebbe tornare nel suo paese, il Bangladesh, ma non ha la possibilità economica. Ha cercato un lavoro più o meno fisso a Palermo, ma non è riuscito a trovarlo.
Adesso è costretto a vendere ombrelli e accendini alla stazione centrale, ogni giorno dalla mattina alla sera, riuscendo a racimolare il minimo per sopravvivere (circa 10/20 € al giorno). Racconta delle sue giornate, tutte uguali fin dalle prime luci del mattino. Dopo la colazione e la preghiera si reca in Stazione, a pranzo mangia riso con altri suoi connazionali e dopo nuovamente in Stazione fino a sera. Cena nuovamente a base di riso e dopo la preghiera dorme qualche ora prima di tornare in Stazione. Non ha saputo spiegarmi dove dormisse, non c’è riuscito, o forse non l’ho capito io. Sarà stato davvero troppo complicato da spiegare.

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Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.