PALERMO. Si è tenuta oggi l’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia presso l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, davanti la Corte d’assise. In aula presente il Procuratore Capo Francesco Messineo per esprimere vicinanza e solidarietà ai pm della trattativa minacciati nei giorni scorsi, in particolare al PM Antonino Di Matteo, oggi assente in aula. Presente anche il presidente di “Libera. Nomi e numeri contro le mafie” Don Luigi Ciotti e il presidente del centro studi Pio La Torre Vito Lo Monaco. Ciotti: “Sono venuto qui per dire ai magistrati che non sono soli.” In aula l’accusa è rappresentata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha depositato la lettera a disposizione delle parti civili e chiede di verificare se la sua deposizione è davvero importante.
Oggi spetta al pentito Antonino Giuffrè, in videoconferenza, di rispondere alle domande dei pubblici ministeri. Il pentito Giuffrè viene sentito come semplice teste di fiducia informato dei fatti ma non imputato.
Il pentito Giuffrè, rispondendo alle domande del dott. Del Bene, racconta della sua entrata in Cosa nostra partendo dal rito di iniziazione nel 1980, prima come soldato semplice poi come capo mandamento di Caccamo. Continua raccontando della sua latitanza, avvenuta dopo aver ricevuto un mandato di cattura per l’omicidio Lima. Proprio sull’Onorevole Lima dice “Non ho mai conosciuto l’Onorevole Lima, altri hanno avuto rapporti con lui, era il referente provinciale di Cosa nostra e intratteneva rapporti con Stefano Bontade, Riina e altri. Lui era il principale referente della corrente andreottiana, poi c’erano i cugini Salvo, Vito Ciancimino e Mannino. il voto – continua Giuffrè rispondendo alle domande del pm Del Bene – andava sempre alla Democrazia Cristiana fino al 1987, poi si cambia; c’è un cambiamento di rotta, non si votò più per la Dc ma per il Partito Socialista e per i radicali. Il ragionamento politico girava intorno a Salvatore Riina, anche se Provenzano non era d’accordo con lui.”
“Lima era l’ambasciatore di Cosa nostra con Andreotti. Lima venne ammazzato per dare un segnale forte a tutti. Uccidere uno per insegnare a cento. Nella lista di politici da punire c’erano anche i cugini Salvo, Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvo Andò.” Gli omicidi di Lima, di Falcone e di Borsellino furono decisi in una riunione drammatica nel dicembre 1991 in cui partecipò anche Giuffrè e racconta che la sentenza del Maxi Processo fu “la goccia che fece traboccare il vaso.” “C’era la commissione al completo – specifica Giuffrè – eravamo nei pressi di passo di rigano, ricordo che la decisione fu presa da Riina. Nessuno osò commentare la cosa. Ghiaccio. Signor presidente, si sentivano volare le mosche.” Così sono stati decisi le stragi del 92. Così Riina emise la sentenza di morte. “Provenzano era d’accordo con Riina e così, con la morte di Lima, si azzeravano i rapporti con la vecchia politica e si cambiava strada.” Poi racconta una frase che gli confidò Riina: “Io e Binnu possiamo anche avere vedute diverse ma quando ci alziamo dal tavolo stai tranquillo che siamo in perfetta sintonia.”
Parla anche di Vito Ciancimino “lui era corleonese, quindi è stato l’uomo più influente di Cosa nostra a Palermo. Soprattutto nel famoso sacco di Palermo. Tra Lima e Ciancimino? Amore e odio.”
“Falcone era il nemico numero uno di Cosa nostra già negli anni 80 con l’operazione Pizza Connection.”
Giuffè rispondendo alle domande del Dott. Teresi racconta le fasi successive alle stragi, quelle del 1993. “Incontrai Provenzano circa un mese dopo la mia scarcerazione; lo trovai cambiato, come se le colpe erano solo di Riina. Aveva detto basta alle stragi.” Provenzano così gli confida “lo Stato quando vuole è più forte, quindi non si deve fare più “scrusciu” (rumore) ed evitare di dare nell’occhio.”