Gli animali esprimono la dimensione istintiva e pulsionale dell’uomo, sia nella sua natura positiva sia in quella negativa. Il cane, compagno dell’uomo fin dalla notte dei tempi è fatto oggetto di molte speculazioni e disattenzioni, alcune delle quali ne descrivono negativamente le note caratteriali in un linguaggio di approccio figurativo poco rispettoso:
Avere un cane è impegnativo. Il cane, al maschile è in generale persona cattiva, crudele, vile, spregevole, incapace. È anche chi fa male il proprio lavoro: Perciò si dice “è stato un vero cane!”. Oltre che impegnativo il cane è anche accostabile a qualcosa di micidiale: un componente essenziale di molte armi da fuoco che nella sua successiva corsa in avanti colpisce, tramite il percussore, l’innesco della cartuccia facendo partire il colpo. Per una sorta di par conditio creditorum la cagna è ad esempio (in senso dispregiativo) un’attrice o una cantante poco dotata (da strapazzo), se non una “donnaccia” o una donna violenta e cattiva, ed addirittura (in forma gergale) una cambiale. In dialetto siciliano cane al femminile se espresso nel senso di “aviri a canazza” non denota il possesso di un’esemplare femmina di 4 zampe (utile al lavoro ed a perpetrare un dato ceppo genealogico), ma sostanzialmente il “non avere voglia di far nulla”.
Chi segue una maledizione atavica trascinandosi un pesante corredo genetico fin da cucciolo è il figlio d’un cane, tutt’altro che un tenero batuffolo di pelo…ma piuttosto un’imprecazione ingiuriosa. Da dimenticare l’immagine del morbido e giocoso cucciolo, foriero di entusiasmo. Il “cagnuolo” è infatti il giovincello non ancora maturo, lo sbarbatello che si atteggia a uomo consumato, esperto. Una persona che gode di limitata considerazione: “devi crisciri, si ancora cagnuolu?”. Un “ometto” (adolescente in genere), non più ragazzino ma con atteggiamenti immaturi, da “cagnuolo” appunto: “un fari u cagnuolo”. Ma altresì un eterno fannullone, uno che soffre della sindrome di Peter Pan.
Peggio ancora è avvicinarsi al modus operandi del proprio animale. Non è contemplata (ai fini di un’eventuale indulgenza verso la povera bestiola) l’esistenza ancestrale dei c.d. “cani da lavoro”. Il lavoro (fatto) da cani è in genere un lavoro mal fatto, ed ancor di più lavorare (lavorare come un cane) equivale a lavorare moltissimo, senza per questo denotare qualità. La locuzione ha persino una variante più scurrile: che se non fosse ingentilita dal latino “ad mentula canis” suonerebbe più o meno …“a minchia di cani”.
L’espressione viene usata per denotare qualcosa che viene fatta male, senza criterio. È zeppa di esempi la categoria di moltissime opere realizzate nell’amministrazione pubblica! Se poi vogliamo comportaci in malo modo o garbatamente con qualcuno (al lavoro, ma non solo) non dobbiamo che trattare il soggetto in questione come un cane, evitando di dispensare carezze croccantini o biscotti (si capisce).
Una determinazione, in senso sia positivo che negativo…. un vero e proprio “accanimento” (e torniamo a scomodare il solito animale) verso il quadrupede domestico. La vita stessa vista da un’ottica cinofila appare essere in salita.. (vita da cani) ossia un’esistenza terribile. Altre azioni come ad esempio dormire (dormire come un cane) o semplicemente mangiare (mangiare come un cane) sono certo indici di negatività. Persino gli eventi atmosferici e le calamità metereologiche sono ricondotti al canide in negativo: uno sbalzo termico (freddo cane) ed in generale il tempo bruttissimo (tempo da cani). Gli stati d’animo di un uomo passano anch’essi, spesso, da un accostamento alla bestiola.
Ci si può “sentire come “un cane bastonato” per esprimere depressione ed avvilimento, afflizione o “solo come un cane”, se abbandonati da tutti” (ad esempio : è morto solo come un c.), per esprimere il rinnegamento della società.
Nel caso in cui si soffra una limitazione nell’agire l’iconografia classica è quella di descriversi come “un cane alla catena”, costretti, condizionati. Non ispira simpatia o fiducia qualcuno che ti guarda in cagnesco. Questo atteggiamento equivale a guardare in modo torvo, di traverso, con ostilità (sebbene lo sguardo del cane non sia sempre ostile, ma solo quando serve). Non esprime parimenti sollievo cromatico il “colore di can che fugge”, ovvero la frase appositamente costruita per esprimere un colore incerto (a prescindere dal valutare la probità dell’animale che, fra l’altro, è notoriamente daltonico). Non parliamo poi del “cane che si morde la coda”, un dedalo da cui non si esce, un concetto vuoto che non spiega niente ma che nella spiegazione ripete ciò che dovrebbe spiegare.
Altre locuzioni infelici e traumatiche legate al cane sono: “Ti morsi u cani?” si chiede, ironicamente, a chi, perso un familiare di stretta parentela, non mostra, negli atteggiamenti esteriori e interiori, quell’afflizione che dovrebbe avere. “Un nociri u cani chi dormi”, non molestare il cane che riposa. Traslato al genere umano: non provocare una persona la cui momentanea quiete potrebbe trasformarsi in aggressività. Non importunare chi ti può nuocere. “Can che abbaia non morde”, per cui si vorrebbe (secondo un antico proverbio) che chi fa gran chiasso non è molto pericoloso. Associare il cane ad altri animali può talvolta generare ulteriori negatività. Si usa dire “essere come cane e gatto” per indicare il non sopportarsi a vicenda, o accomunare i cani ai maiali (cani e porci) per significare che una determinata cosa sia talmente mediocre al punto che tutti, indistintamente, senza selezione, possono accedervi. In tal senso tra i due animali si giunge a creare persino un ibrido, un incrocio genetico utile a creare un’imprecazione ad hoc: “porco cane”!
Anticamente il Petrarca giunse ad colpire il cane persino in una delle sue caratteristiche più significative: .. “che ‘l sepolcro di Cristo è in man di cani” per simboleggiare l’infedeltà. Al culmine del pessimismo cosmico, quando persino un globo terracqueo può fare riferimento al mondo animale il mondo diventa popolarmente vile, cattivo (mondo cane).
Quanti cani mai potrà contenere il mondo? Quante razze? Quali esemplari? Descrivere le razze è troppo dispendioso ma, in odor di approccio, potrebbero tracciarsene alcuni grandi gruppi.
Un primo grande gruppo è quello dei c.d. “cani di mannara”. In natura i cani di “ Mannara “ sono un incrocio tra diverse specie ed annoverano tra le loro caratteristiche un carattere dolce ma deciso, uno spiccato senso del dovere e di fedeltà, un carattere socievole. La formulazione relativa però non rende affatto giustizia all’efficienza ed allo stacanovismo dell’animale. In chiave antropica il cane di mannara è spesso usato come paragone per descrivere l’aggressività di un individuo (es. “Sì nu can’i mannara”, ovvero “Sei aggressivo come un C.d.M.”) delineando un “ soggetto efferato, feroce, crudele”.
Alla categoria anzidetta in genere si frappone un altro grande agglomerato: quello dei “cani i bancata”. Il cane di bancata è un parassita esistito da sempre. I cani stessi, con ogni probabilità, disprezzano questo archetipo che offende la loro categoria. È l’ozio fatto persona (pardon, cane), un cane dalla vita paciosa, di carattere per lo più permissivo, dotato di enorme pazienza. Costui passa il suo tempo, lacero e perennemente stanco, con la panza spaparanzata al sole o accovacciato in prossimità di una macelleria, a “taliare” (guardare) la bancata, ossia il bancone della carnezzeria di turno in attesa che il titolare gli passi un pezzo di carne o di un bell’osso da mangiare. Dorme sul marciapiede si aggira nei mercati rifugiandosi sotto ai banconi per nutrirsi di ciò che cade, degli avanzi, degli scarti, e vive noncurante di quello che gli accade attorno, seguendo alla lettera l’antico detto “ l’acqua mi vagna e u viantu m’asciuca”. Tanti “i cani i bancata” tra gli uomini, si veda a tal uopo anche e soprattutto alla voce segreterie politiche. Quel tipo di “putie” sono frequentate dai politici ancor più delle sedi istituzionali. Li ci sono molti cani di bancata che personificano esseri corrotti, approfittatori, parassiti in attesa di carne fresca.
Diametralmente opposto al cane di bancata si colloca il “cani can un canusci patruni”, che è davvero un tipo inaffidabile: è l’ingrato per antonomasia. Meglio non averci nulla da spartire e, soprattutto, non fargli favori. Una cosa è certa: non li ricambierà mai. Di affine c’è una tipologia di c.d. “solista”. Il cane sciolto, personaggio, spec. politico, che opera in modo indipendente, senza attenersi alle disposizioni di (ad es.) un partito, un’associazione una lobby ecc.
Sempre per seguire un altalenante susseguirsi di concetti che appaiono antistanti, c’è poi chi “ha i cani attaccati”, cioè i potenti che lo proteggono. Così si spiegano talune condotte che, a prima vista, sembrerebbero azzardate, poco avvedute. Nel sistema clientelare sino al midollo i più si cercano i politici (sì, il plurale: meglio averne diversi, uno non basta) cui ancorare la propria salvaguardia. Per il bene loro e il male della collettività.
Proseguendo sulla via del sillogismo cinofileggiante troviamo un altro grande gruppo: i “cani arraggiati”, (con la rabbia) quando ci si riferisce ad un uomo che invece di parlare, pare abbai. I suoi latrati mettono in guardia: starsene alla larga, potrebbe metaforicamente mordervi da un momento all’altro. Nulla da temere in presenza di un esemplare della categoria “ cane da pagliaio”, di guardia alle case coloniche, di solito bastardo; fig. persona coraggiosa solo a parole. Se il cane da pagliaio è visto in negativo per un verso il can per l’aia viene menato (picchiato) per indicare il tergiversare di alcuni interlocutori. Guai a pensare che questa sorta di complotto possa dirimersi con la religione. Non certo presso la cattolica indulgenza della comunità dei credenti: essere sfortunati come i cani in chiesa si usa per esprimere maltrattamento (giacché i cani, in un luogo sacro come la chiesa sono scacciati da tutti).
Comunque si muovano i cani, con quella doppia coppia di zampe, pare sbaglino. La forzatura di “Voler raddrizzare le gambe ai cani” viene indicata per accennare a chi cerca di fare l’impossibile (a scapito dell’incolpevole animale). Sembra tutto volto a cacciare questo atavico amico. C’è persino uno strumento appositamente congegnato: la “scacciacani”. È una pistola giocattolo a salve, usata anche per intimorire; in usi scherzosi, pistola di modello superato o scadente. Serve ad intimorire altri animali, e talvolta persino l’uomo, ma l’hanno voluta intitolare espressamente al cane. Facendo conto che l’animale, sdegnato per tanto disprezzo, sia andato via, persino in sua assenza (o a sua insaputa, come è di moda dire ultimamente) si usa un’espressione che lo tira in ballo. Se ne parla infatti ugualmente per denotare che non c’è nessuno, nella desolazione di esseri, nel citare la classica perifrasi “Non c’è un cane”. L’unica virtù del cane sembra la taglia. Il cane grosso è indicativo di persona potente, di prestigio: “tra cani grossi non si mordono”. Roba da scervellarsi, mica.. “bau bau…micio micio”!
Di Diego Motisi