La mafia c’era e c’è, è la mafia che ha compiuto stragi e omicidi, che ha controllato imprese, condizionato le istituzioni. Il ricordo della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985 a trent’anni pone ancora interrogativi, ma nel nome delle vittime, Barbara, Salvatore e Giuseppe si lavora per illuminare la giustizia
Non è normale che non si sappia tutto, si conosce poco, a 30 anni dalla strage di Pizzolungo, quell’attentato organizzato contro il pm Carlo Palermo e la sua scorta (Nino Ruggirello, Totò La Porta, Raffaele Di Mercurio e l’autista Maggio) dalla mafia trapanese e alcamese, per ordine di Totò Riina – condannato all’ergastolo assieme al capo del mandamento di Trapani Vincenzo Virga e ai boss palermitani Nino Madonia e Balduccio di Maggio -.
Morirono Barbara Rizzo di 30 anni ed i suoi due figli gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe Asta. La loro auto fece da scudo a quella del magistrato e a quella della scorta al momento della esplosione. Non è normale sapere chi fu ad azionare il timer, esponenti della potente mafia alcamese capeggiata da quel Nino Melodia, senza potere procedere al processo nei loro confronti.
Anzi il processo ci fu, ma si concluse con clamorose assoluzioni (Vincenzo Milazzo, Filippo Melodia, Vincenzo Cusumano, Pietro Montalbano, Gioacchino Calabrò, Mariano Asaro, Gaspare Crociata e Antonino Palmeri) con tanto di sigillo della Cassazione. Il processo di secondo grado dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta ribaltò le condanne pronunciate in primo grado e il giudice ammazzasentenze Carnevale confermò il giudizio di appello.
Tempo dopo i pentiti indicarono i responsabili della strage, la sentenza che condannò all’ergastolo Riina e Virga scrive i nomi degli esecutori, senza però poter far nulla, le assoluzioni definitive non possono essere più ribaltate. Uscì fuori anche la rivelazione di un collaboratore di giustizia che raccontò l’incarico ricevuto da Riina dal capo mafia nisseno Piddu Madonia, che avrebbe dovuto avvicinare i giudici di appello per “convincerli” ad assolvere gli imputati accusati dell’esecuzione della strage. Durante il processo sulla raffineria d’eroina scoperta a fine aprile 1985 ad Alcamo in contrada Virgini, fu condannato Gino Calabrò per l’accusa di ricettazione a proposito dell’auto rubata e trasformata in autobomba. Calabrò anni dopo verrà condannato per le stragi del 1993. Fu tra quelli che portarono in nord Italia il tritolo usato per un’altra strage, quella di via Georgofili, e per il mancato attentato all’Olimpico di Roma, dove oltre mille carabinieri non furono uccisi perché non funzionò il timer che doveva far saltare in aria una Croma imbottita di esplosivo e chiodini metallici.
Non è stato normale quello che è accaduto in coincidenza del trentennale della strage. Una anormalità però importante, di quelle che lasciano il segno. In occasione della messa crismale, quella del giovedì santo, quest’anno coincidente con il 2 aprile, il vescovo di Trapani Pietro Maria Fragnelli, ha voluto far sentire la sua voce forte, potente. In una cattedrale gremita di fedeli, tanti presenti proprio per il carattere liturgico così importante della cerimonia per il mondo cattolico, ma tanti erano lì per ricordare le vittime della strage (i funerali di Barbara, Salvatore e Giuseppe furono celebrati il 4 aprile 1985, giorno anche allora dedicato al Giovedì Santo), mons. Fragnelli già dall’avvio della messa, davanti all’intero mondo ecclesiale trapanese ha voluto dire che quella cerimonia era dedicata anche alle vittime della strage, alle vittime decedute ma anche ai sopravvissuti e in prima fila c’era Carlo Palermo, il pm sfuggito all’agguato, seduto a pochi metri da Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime, dai familiari di Barbara Rizzo, poche file indietro gli agenti di scorta rimasti vivi, Ruggirello e La Porta (qualche anno addietro è morto di crepacuore, conseguenze di quell’attentato, Raffaele di Mercurio).
“Ognuno di noi deve farsi portatore dell’olio del proprio impegno civile e spirituale. Rinnoviamo vicinanza, affetto e sostegno ai familiari della famiglia Asta: il loro sacrificio ingiusto ma non inutile. Ad esso attingiamo per moltiplicare l’impegno contro il male”.
Parole così efficaci che la Chiesa trapanese in questi 30 anni non aveva mai pronunciato, adesso i trapanesi e non solo loro non possono più dire di non sapere. E’ stata una settimana intensa, sviluppatasi attraverso molteplici iniziative organizzate dal Comune di Erice (in territorio di Erice fu compiuta la strage e l’allora sindaco di Trapani in tv andò a dire che la strage era opera di mafia ma non c’entrava Trapani perché in città la mafia non c’era) e da Libera.
“Non ti scordar di me” il titolo dato al cartellone. La risposta è stata notevole. Libera è stata presente con delegazioni arrivate da ogni parte d’Italia, c’erano le scuole di Fermo e Formello, il baby consiglio comunale di Castello d’Argile (Bologna), sindaci, dirigenti scolastici, donne e uomini della società civile, sportivi dell’Uisp e con loro i familiari di tante vittime di mafia, loro come Margherita in attesa di sapere la verità sulla morte dei loro cari, genitori, fratelli, sorelle, figli, nipoti, zii, nonni.
Giornata importante quella del 2 aprile 2015. C’era anche don Luigi Ciotti che ha voluto partecipare alla messa crismale della Diocesi di Trapani, volendo dire di sentirsi prete di questa Diocesi, pur appartenendo a quella di Torino. Presenza quella di don Ciotti che il vescovo Fragnelli ha pure messo in evidenza. Se non è normale il silenzio su quella strage, non poteva essere normale, al contrario, in maniera positiva, il suo ricordo. “In questo giorno – ha detto mons. Fragnelli – vogliamo rinnovare il nostro affetto e il nostro sostegno ai familiari della famiglia Asta e a quanti nel ricordare Giuseppe, Salvatore e Barbara ci hanno invitato a fare un salto di qualità nella nostra vita sociale e culturale. Abbiamo bisogno di questi momenti per capire che questi sacrifici non sono inutili – ha detto il vescovo – sono ingiusti e rimarranno una ferita sempre aperta ma non sono inutili e vani. A questo sacrificio attingiamo consolazione e incoraggiamento per andare avanti, per moltiplicare l’impegno contro i tanti volti del male nella fiducia di un’umanità nuova, quell’umanità di cui Cristo ci ha reso partecipi”.
A Pizzolungo sul luogo della strage in coincidenza del 2 aprile sono cominciati i lavori per creare un “parco della memoria”, un’area attrezzata per accogliere giovanissimi e giovani, ci sarà anche una sorta di casa-museo. Tutto questo è avvenuto in mezzo a tantissimi giovani. “La presenza dei giovani – ha detto Don Luigi Ciotti presidente di Libera – è segno che le cose stanno cambiando. Bisogna sottolineare con forza che il miglior modo di fare memoria è quello di impegnarci di più tutti. Due parole dobbiamo sentire graffianti dentro di noi: la consapevolezza e la responsabilità. Consapevolezza perché nonostante il lavoro dei magistrati, delle forze di polizia e dei gruppi di associazioni le mafie sono ancora forti. Di fronte a tutto questo dobbiamo assumerci tutti la nostra responsabilità, ci sono ancora troppi cittadini ad intermittenza e troppe persone che stanno a guardare e poi ci sono anche quelli che hanno rubato la parola legalità, altri invece che si nascondono dietro la parola “antimafia”. Ancora c’è questo in Italia, ma c’è anche tanta positività che sta crescendo nel Paese; tanti stanno prendendo coscienza che il cambiamenti ha veramente bisogno di ciascuno di noi. Non c’è una strage in Italia di cui conosca la verità – ha continuato Don Luigi Ciotti rispondendo alle domande dei giornalisti – più del 70% dei familiari delle vittime innocenti della mafia non conosce la verità. Non dobbiamo avere paura di piangere, sono momenti difficili e questo Paese non deve fare memoria soltanto mettendo le lapidi o intitolando piazze, ma si dia una mossa in più per dare onore a chi ha perso la vita ma per essere anche coerenti con quello che andiamo a dire con le parole.”
Fiducioso che alla verità si possa arrivare si è detto Carlo Palermo, oramai da anni fuori dalla magistratura e avvocato civilista: “Quello che è successo a me e ad altri magistrati in quegli anni terribili fa parte della storia di tutti noi e per i ragazzi, che spesso di queste storie non sanno niente, quella di oggi è una lezione di vita, un’educazione alla legalità. Quando io stavo a Trapani – continua il dott. Carlo Palermo – mi fu proibito tutto, conoscevo solo le stanze del tribunale e le strade percorse a tutta velocità. Per me oggi essere qui a Trapani vuol dire rinnovare un impegno quotidiano. Io la mafia – ha continuato – non l’ho incontrata a Trapani, l’ho incontrata a Trento quando facevo il giudice istruttore, qui a Trapani ho incontrato la mafia, le intelligence deviate di diversi paesi, altre mafie, e tanti affari illeciti”.
Affari di mafia che non sono diverse da quelle delle quali oggi si occupano i magistrati a Trapani e a Palermo. E per questo Don Ciotti ha aggiunto: “La memoria si trasformi in impegno costante, 365 giorni all’anno. Questa è una terra stupenda, ma una terra ancora amara, la strada è ancora in salita, la presenza della mafia è ancora viva e l’antimafia non deve essere solo quella delle lapidi.”
“Dal 1969 al 1994 – ha aggiunto l’avv. Carlo Palermo – la storia presenta ombre; esaminare i fatti di quegli anni, separatamente, è stato un errore. Solo recentemente si è cominciato ad apprendere qualcosa in più. E’ necessario rileggere quegli anni per poter capire anche la Trattativa Stato-mafia“.
Una cerimonia quella del 2 aprile preceduta da momenti importanti come la messa in scena (regia Massimo Pastore, coreografie Patrizia Lo Sciuto) della “Cantata per la festa dei bambini morti di mafia” tratta da un racconto di Luciano Violante. Non meno importante la messa in onda la sera dell’1 aprile di un documentario sulla strage realizzato da Rai Storia per la serie “Diario Civile”. “Per quanto mi riguarda – ha aggiunto ancora Carlo Palermo – ho sempre preferito non pensare in termini fisici ai mostri che un giorno pigiarono un tasto per eseguire una sentenza di morte. E tantomeno a chi la pronunciò e a chi vi concorse. Mi sono sempre rifugiato in immagini confuse di corpi senza volto, di fantasmi che vorrei dimenticare. Anche se, purtroppo, queste ombre continuano a inseguirmi, pronte a materializzarsi di nuovo all’improvviso, ricordandomi che vale comunque la pena di continuare a cercare… forse per scrivere un altro capitolo di questa storia senza fine… forse solo per tentare di comprendere perché, a Pizzolungo, quel 2 aprile, giorno del mio attentato, morirono dilaniati due gemelli di sei anni, Giuseppe e Salvatore Asta, e la loro madre, Barbara. Il padre, Nunzio, morì d’infarto qualche tempo dopo. Il caposcorta, Raffaele Di Mercurio, di quarant’anni, morì due anni fa, anche lui d’infarto. Il mio autista Rosario Maggio e agli altri due agenti di scorta, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, lasciarono il servizio per le lesioni riportate. Io non sono più un giudice”.
Ed interessante è stato un dibattito che la sera del 30 marzo ha impegnato oltre allo stesso carlo Palermo, un magistrato, Andrea Tarondo, Umberto Di Maggio portavoce regionale di Libera, e il presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Santo Della Volpe. Un dibattito cui hanno attivamente partecipato i giovani di una associazione che da tempo ha scelto un preciso impegno contro le mafie, l’associazione Trapani per il futuro. Un confronto sul tema dei 100 passi di Impastato e che ha voluto sviscerare tutto quello che c’è tra i 100 chilometri che dividono Trapani da Palermo, sotto diversi profili, giudiziari, sociali e dell’informazione.
“La mafia ha capacità di ridurre le distanze” ha esordito Carlo Palermo. “Realtà intrecciate in connubi di interessi di affari e delitti che hanno scritto la nostra storia. L’attentato di Pizzolungo non sarebbe avvenuto se io non fossi venuto a Trapani ma non è che la mafia non c’era ed è venuta dopo Pizzolungo, Trapani è un territorio di particolare pericolosità sociale ma luogo in cui determinate cose sono avvenute perché qui si può ricostruire parte della storia di Italia, Trapani e la Sicilia hanno coperto ruoli importantissimi, fatti illeciti. Trapani come Trento, la prima cosa che ancora oggi si dice è che sono zone tranquille….ecco perché la mafia qui come a Trento sono più forti”.
Umberto Di Maggio ha ricordato i mille volti dell’antimafia, “le mani callose di chi lavora nei terreni confiscati, gli operai impolverati della Calcestruzzi Ericina Libera, l’antimafia semplice è quella delle lacrime negli occhi dei familiari delle vittime o ancora quella fatta dalle domande e dall’impegno dei ragazzi dell’area penale che si ricordano i passi nei quartieri complicati e decidono di fare altri passi”. Ed ancora “l’antimafia dei giornalisti che possono scrivere ma non trovano la carta”. E a proposito di giornalisti: “.…quanti punti interrogativi quanti pochi punti esclamativi”.
“La comunicazione veloce purtroppo non ci ha aiutato – ha esordito Santo Della Volpe – la comunicazione veloce continua a dimenticare le buone idee e le buone persone”. Della Volpe ha richiamato tutti i giornalisti a “contestualizzare la notizia” e il richiamo non è arrivato a caso. A pochi giorni da quel dibattito un settimanale locale trapanese ha dato ampio spazio alle cose dette durante il dibattito dal magistrato Andrea Tarondo e dall’ex pm Carlo Palermo, come se fossero state dichiarazioni prese durante delle interviste, ma nessuno dei due risulta essere stati avvicinati da chi ha realizzato quel servizio. Anzi cancellato il dibattito, le sue origini, il contesto. Come a dire che l’impegno giornalistico risponda non tanto ai lettori.
Eppure una precisa regola dell’informazione esiste. L’ha lasciata un giornalista ammazzato dai terroristi a Milano, Walter Tobagi: “il giornalista quando ha una notizia la scrive se risulta fondata ed è di rilevanza pubblica, ma soprattutto fa intravedere la fonte, solo così fa un servizio pubblico, sennò fa un altro genere di servizio”. E il pm Tarondo è finito stampato su questo settimanale come un giudice folle che ha sparato frasi a destra e a manca, quasi rendendo la sua figura come quella di un “collaboratore di giustizia”: “…io oramai faccio nomi e cognomi”. Fatti giudiziari, scritte su sentenze, sono state spacciate come frutto del pensiero di una persona. Il pm Tarondo in un contesto preciso ha parlato di Pizzolungo, delle tante vite segnate da quel fatto, e della necessità che “ancora c’è tutto da capire”. “Trapani è insidiosa” parole quanto mai previgenti. Tarondo ha parlato di imputati condannati o assolti, facendo riferimento alle sentenze non a proprie considerazioni.
“Scelte politiche – ha detto – si è scoperto essere state prese con il consenso della mafia e della massoneria, Matteo Messina Denaro oggi è protetto nella sua latitanza da soggetti che sono stati intaccati da condanne ma che la società civile non ha mai espulso”.
Sono stati i giovani con le loro domande a dire come mai “la mafia è nel governo della cosa pubblica” e la risposta del pm Tarondo è stata chiara: “La mafia gioca a confondere, la mafia prende il microfono e parla di antimafia”.
Infine vogliamo pensarla come Carlo Palermo perché nonostante queste gravi cadute del mondo dell’informazione c’è possibilità che una informazione giusta aiuti ad arrivare ad illuminare la verità: “Spero che l’anno prossimo possa essere un anno diverso…lo Stato oggi si sta difendendo, il potere si sta difendo perché è stato attaccato dai magistrati… La verità non è stata scritta ma sono sicuro che verrà nonostante oggi il tanto decantato segreto sulle stragi non è caduto…”.