Iniziativa dell’Anm di Trapani in occasione del 23° anniversario della strage di via D’Amelio. Il teatro di Segeta diventa aula di Tribunale, ma le parole per i fatti di ieri restano attuali.
Non è trascorsa nemmeno una settimana dalle “voci” alzatesi a ricordo della strage di via D’Amelio, e immediatamente hanno ripreso vigore le iniziative politiche che vanno in senso inverso rispetto a tutto quello che si è ascoltato. E’ tornata in auge la legge bavaglio, il no alle intercettazioni, l’obbligo di chiudere anche indagini complesse in tre mesi. Proposte di legge che fanno prendere respiro al boss latitante Matteo Messina Denaro, che in fin dei conti danno una mano ai colletti bianchi ed ai corrotti. “Altro che tre mesi… In indagini complesse come quelle di mafia, terrorismo e corruzione, solo ascoltare migliaia di intercettazioni, scrivere informative di polizia e le eventuali richieste di misure cautelari, per migliaia di pagine, richiede parecchi mesi. Ipotizzarne solo tre significa amputare le indagini”. Le parole appena scritte sono estratte da una intervista a Repubblica del presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Nel 23° anniversario della strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, è stata presentata nella suggestiva cornice dell’anfiteatro di Segesta una simulazione processuale che ha preso spunto dalla tragedia di Seneca, che ha visto Medea imputata dell’omicidio dei propri figli. E c’era anche Sabelli, le cui parole dette in quella cornice hanno avuto un collegamento con quello che da lì a poco sarebbe accaduto, i magistrati e i giudici sotto accusa, i colpevoli “tutelati”. L’evento di Segesta è stato promosso dalla Sottosezione dell’Associazione nazionale Magistrati di Trapani, dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Trapani e dalla Camera penale di Trapani, in collaborazione con Libera. Ad interpretare il dramma processuale sono stati: Renato Lo Schiavo (docente di lettere classiche al Liceo Ximenes di Trapani, nei panni di Seneca), Chiara Badalucco (giudice del Tribunale di Trapani, nei panni di Medea), Rodolfo Sabelli (che ha rappresentato la pubblica accusa nei confronti di Medea), Giovanni Sofia (avvocato del foro di Salerno, ha avuto il ruolo di difensore di Medea), Carmelo Passanisi (avvocato del foro di Catania, è stato l’agoreuta che ha intrattenuto il pubblico e la giuria popolare sul tema della ‘difesa dell’indifendibile’), Antonella Magaraggia (presidente di sezione del tribunale di Venezia, che ha giudicato l’imputata ed ha emesso la sentenza).
E’ stata una giornata particolare che merita di essere raccontata, intanto per le ragioni dell’iniziativa e poi per alcuni passaggi che non a caso sono stati richiami precisi rispetto all’odierna realtà giudiziaria italiana.
Il processo alla Medea di Seneca non solo è stato posto in relazione alle vicende odierne circa i conflitti familiari, le violenze che maturano all’interno di contesti familiari, le violenze contro i minori e le donne, ma grazie alle parole di chi è intervenuto nelle vesti di pm, difesa, e giudice è stato facile trarre spunti di riflessione sui comportamenti che spesso la società civile, quindi non solo la sfera giudiziaria, assume dinanzi a fatti gravi. Se spesso la società civile giudica malamente l’operato dei Tribunali, dai togati del processo di Medea è arrivato un forte quanto fondato rimprovero alla società civile, perché “spesso è testimone di fatti gravi ma non li denuncia, salvo poi, dopo essersi girata dall’altra parte, e dopo che le violenze, di qualsiasi genere, producono vittime, affolla le chiese per i funerali e batte le mani”. Ecco in questi giorni sta accadendo che c’è chi applaude al bavaglio e alla legge ferma indagini.
La storia della Medea di Seneca è nota, donna fredda, lucida, consapevole, determinata, Medea uccise pure i suoi due figli per affermare la propria individualità sopra ogni altro principio. Ella pienamente comprese, consapevolmente volle e liberamente realizzò. La sentenza emessa dal giudice Antonella Magaraggia è stata opposta a quella di assoluzione espressa dal pubblico che sollecitato dall’agoreuta avv. Carmelo Passanisi, ha votato in tal senso. Il giudice ha espresso una sentenza di condanna: Medea colpevole del duplice omicidio di Creusa e Creonte e dell’assassinio dei suoi due figli, condannata a vivere perennemente con il proprio rimorso, nello stesso tormento che avrebbe voluto infliggere al padre dei suoi figli, Giasone, andando alla ricerca di una legge morale che, in quanto assente, non ha mai fermato la sua crudele mano omicida e matricida.
La pubblica accusa, rappresentata da Rodolfo Sabelli, presidente dell’associazione nazionale magistrati, non ha avuto dubbi nella ferma richiesta di condanna sostenendo l’assenza di qualsiasi ipotesi che potesse ricondurre a un gesto di follia. Ma il pm Sabelli ha anche voluto aggiungere una ipotesi di assoluzione. Giammai dalle colpe dei 4 omicidi commessi, ai danni dei sovrani di Corinto e dei suoi figli. “Seneca – ha detto Sabelli – condanna Medea per la sua fama, quella di donna assassina, ma anche per la fama di donna che come Ulisse ha inseguito la conoscenza. La fama di Seneca condanna Medea per la sua audacia, per la sua sapienza, la sua ribellione, ma io da queste accuse la assolvo. La condanno semmai per l’abuso che fece della sua libertà, per essersi fatta trascinare dall’ira, disperdendo l’occasione di riscatto che lei aveva”. “Medea non si è potuta difendere” ha sostenuto l’avvocato della difesa Giovanni Sofia , “Medea è stata dipinta e descritta come donna malvagia”.
A nulla sono valsi i tentativi della difesa rappresentata dall’avvocato Giovanni Sofia. La tesi difensiva ha evidenziato come mai l’imputata avesse ucciso per propria volontà se non per inseguire e favorire la sete di potere e le ambizioni imperialistiche del marito Giasone. Seneca, secondo il difensore, ha costruito ad arte un’opera di demonizzazione di Medea. Un mostro da sbattere in prima pagina così come avviene al giorno d’oggi, azzardando un paragone con il caso Gambirasio-Bossetti per dimostrare il potenziale suggestionante dei media, e ricordando che il mezzo a più larga diffusione popolare, al tempo, era costituito dal teatro. La difesa, che in realtà avrebbe voluto ottenere la nullità del processo, ha chiesto quindi l’assoluzione. Ma anche segnato ciò che mancava ieri quanto manca ancora oggi, il “giusto processo”. Manca cioè ciò che in vita giudici come Falcone e Borsellino hanno tentato di praticare, il rispetto del processo assieme al rispetto civile.
Il giudice come si diceva ha condannato, perchè, ha spiegato il presidente del Tribunale, Antonella Magaraggia, la condanna è stata conseguenza logica di ciò che c’era nel fascicolo, ossia il racconto di Seneca di quella donna.
Ma si diceva dei collegamenti alla realtà odierna. Perchè intanto oggi ancora più di ieri ha valore un passaggio segnato dal pm Sabelli, “un paese senza giustizia non può durare in eterno” e se ieri l’assoluzione invocata per Medea rischiava di portare quello Stato alla rovina, privandolo della giustizia, oggi si fa di peggio, dentro lo Stato “si costruiscono percorsi di legge che portano alle assoluzioni”, con buona pace di tutto quello che si dice durante le commemorazioni. “Non basta indignarsi, non è sufficiente indignarsi, dinanzi al ricordo delle stragi – ha detto Sabelli – se alla indignazione non consegue il giusto agire!”. Parole dette quando ancora non si sapeva che da lì a qualche giorno veniva tirata fuori dai cassetti la legge bavaglio con tutte le conseguenze per giornalisti e magistrati.