Le acque termali, scopro, in inglese si chiamano hot springs.
Sorrido pensando all’acqua cavura come la conosco io, un corso d’acqua immerso nella vegetazione che spesso si allarga a formare delle nache, deliziose pozze bollenti, alcune talmente calde che starci immersi diventa un esercizio di resistenza.
Un bellissimo angolo di Sicilia nascosto fra i vigneti, spesso deturpato da un’incuria e un’inciviltà che pure non riescono ad annullarne il fascino.
Un tempo, queste pozze erano soprattutto il ristoro dei contadini che lavoravano le terre vicine. Mentre l’acqua calda scioglieva la stanchezza, con cautela si ispezionavano i sassi piatti sul letto del fiume; sotto, si nascondevano a volte grassi pesciolini neri, uno spuntino ghiotto se eri lesto ad infilzarli con una forchetta.
Me lo racconta mio nonno. Spulciando in biblioteca e su internet scopro però, che le nostre pozze erano state, prima ancora, un’imperdibile tappa per i nobili viaggiatori che giravano l’Europa fra il sette e l’ottocento, che, passandosi fra loro la parola, delle hot springs (o eau sulfureuse, o thermalwasser a seconda dei casi) erano diventati dei grandi estimatori.
Venivano perlopiù dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania. Me li immagino mentre siedono placidamente fra i vapori, dopo avere visto le rovine di Segesta, e si scambiano commenti sui luoghi visitati.
«En France, una pareille source serait une cause de richesse por tout le pays que l’environne» avrà detto, tutto rosso in faccia per il calore, il Francese Fouquet. Una simile sorgente potrebbe essere fonte di ricchezza per tutto il circondario. Inviato in Sicilia per documentare l’ultima eruzione dell’Etna, al ritorno in patria avrebbe esposto questa e altre sue impressioni sull’isola sulla Revue Contemporaine del 1866.
Gli amici attorno a lui, pensiamo, avranno annuito.
E centocinquant’anni dopo chi capita qui continua a dire la stessa cosa.
Al tempo in cui giunse qui Fouquet la Sicilia era una delle tappe irrinunciabili del Grand Tour, il viaggio attraverso l’Europa che a quei tempi completava la formazione culturale dei rampolli dell’aristocrazia europea.
Che si viaggiasse in direzione di Trapani o di Palermo, la tappa ad Alcamo era, per questi viaggiatori, un passaggio obbligato.
Per le forze dell’ordine alcamesi, garantire il transito sicuro di questi viaggiatori d’alto rango era un affare serio. I repertori di polizia ottocenteschi registrano l’arrivo in paese di conti e marchesi, di professori, chirurghi e scienziati provenienti da mezza Europa, nonché di viaggiatori d’eccezione, quali la Duchessa di Parma Maria Luisa d’Asburgo (l’allegra vedova di Napoleone) la cui visita a Segesta nel 1824 richiese un vero spiegamento di forze di sicurezza. Le vetture non viaggiavano mai isolate, ma riuniti in lunghe carovane allo scopo di scoraggiare i malviventi.
Non erano misure eccessive, se nel 1804 il pittore prussiano Karl Schinkel fu assalito dai banditi nel tratto fra Alcamo e Segesta, e la paura fra i viaggiatori era tale che molti, come lo scrittore Vivant Denon e il pittore Jean-Pierre Houël preferivano ricorrere a una scorta privata.
Fra scorte e servitù, non si viaggiava certo leggeri. Per immortalare le tappe del viaggio, alcuni si trascinavano dietro anche un incisore, ma la maggior parte dei viaggiatori affidava la memoria del tour ai diari privati, quaderni che spesso al ritorno in patria erano pubblicati, e che oggi costituiscono una delle pagine più belle della letteratura di viaggio. A questi commentari si rivolsero, per tutto il ‘700, le nuove ondate di viaggiatori a caccia di nozioni pratiche sui luoghi da visitare, finché all’esigenza diffusa d’informazioni più precise non rispose la geniale intuizione di Mariana Starke, che nel 1824 pubblicò il primo hand-book travel d’Europa, una guida di viaggio relativa alla Francia e all’Italia. La pubblicazione della Starke fu seguita, nel giro di pochi anni, da molte altre analoghe, come quelle di Dennis e Murray e soprattutto di Karl Baedeker, destinato a dare il suo nome al genere del manuale da viaggio.
Spulciare le pagine di questi books dedicate ad Alcamo e al suo territorio è affascinante e divertente.
Sono descritte, spesso minuziosamente, chiese, monasteri e opere d’arte, le campagne coltivate a vigneti, olivi, mais e sommacco, l’arbusto da cui si estraeva il tannino impiegato nella concia delle pelli. Mariana Starke cita il “superb yellow marble”, lo splendido marmo giallo di Alcamo, ma anche le bellissime farfalle che avevano accompagnato il suo viaggio verso il paese.
Con occhio acuto, i viaggiatori colgono le antiche radici arabe del paese: Fedor von Karacsay le ravvisa nelle “murailles crènelèes”, le mura merlate, oggi scomparse; George Brandshaw nelle «case di mattoni rossi dal cupo aspetto moresco»; molti altri le scorgono nell’abbigliamento femminile. «Le donne di Alcamo hanno conservato in parte il costume moresco» – annota Louis de Forbin nel suo Souvenirs de la Sicile – «loro si avvolgono, come le donne turche, in un ampio manto nero: esso è di seta per le ricche, di lana grezza per le povere […] mi sembrava di essere ancora in Siria». Un uso che non doveva essere altrettanto diffuso negli altri paesi siciliani, se anche Dennis e Murray ne fanno particolare menzione: «the women of Alcamo wear black veils», scrivono, e aggiungono che «many are remarkably pretty».
Abbondano, negli hand-books, le informazioni pratiche: Mariana Starke, nel 1827, segnala che ad Alcamo si può alloggiare in un ostello gestito da un abate che «sebbene piccolo, è pulito e confortevole», precisando che l’abate, qualora lo si voglia, può anche fare da guida alle rovine di Segesta e alle Terme Segestane.
Dennis e Murray citano due alberghi nel 1864: la “Locanda del tempio di Segesta” e la “Locanda della Fortuna”, definiti rispettivamente “decent” e “tolerable”… ma non abbastanza tollerabili per il barone De Galembert, che, giunto ad Alcamo nel 1860, lamenta vivamente la frugalità dei pasti e la scomodità degli alloggi, rammaricandosi che non vi sia più, ad Alcamo, il barone Felice Pastore, che – ricorda con nostalgia – «si compiaceva a esercitare la propria ospitalità verso gli stranieri» e di invitarli alla propria “table exellente”, la sua mensa eccellente.
Passeggiavano per il paese con taccuini alla mano e nasi all’aria, pronti a stupirsi per ogni aspetto di questi luoghi tanto diversi dal loro paese. Inorridivano nel vedere la miseria di certe abitazioni, con animali e prole stipati nella stessa stanza.
Ad Alcamo, si fermavano, in genere, una notte soltanto. Poi, all’alba, di nuovo in marcia. Per procedere, di buon’ora, alla volta di Palermo, di Trapani, o della mitica Segesta e delle sue leggendarie hot springs.
Letizia Lipari