L’atto di coraggio richiede sia delle competenze emotive che cognitive. Infatti, se da un lato, il coraggio implica il non avere paura di fare una certa cosa (competenza emotiva), dall’altro richiede spesso l’utilizzo di una strategia (competenza cognitiva) più o meno consapevole. Facciamo un esempio. Se sul mio posto di lavoro non mi sento abbastanza valorizzato e penso che gli altri si approfittino troppo della mia disponibilità, nell’andarmi a lamentare col mio responsabile, non solo devo avere fiducia in me stesso nell’esprimere la mia amarezza (componente emotiva), ma devo anche essere capace di saper fare una corretta analisi del problema, magari proponendo anche delle possibili soluzioni (componente cognitiva). Essere privo di adeguate argomentazioni potrebbe farmi scoraggiare troppo presto. Talvolta, non trovare il coraggio per una determinata azione è dovuto alla percezione che il problema da affrontare sia per noi troppo grande, come se dessimo per scontato che non possiamo tenere la situazione sotto controllo. A tal proposito, per raggiungere la sicurezza emotiva è bene provare ad agire sulla componente cognitiva del nostro comportamento, ad esempio provando prima a fare un’accurata analisi, poi a spezzettare il problema in diverse parti, suddividendo il percorso per il raggiungimento dell’obiettivo in diversi sotto obiettivi. Infatti, più percepiamo un obiettivo come grande o difficile, più tende ad aumentare la probabilità di percepire il raggiungimento dello stesso come troppo gravoso ed il problema come insormontabile. Di conseguenza, il coraggio tende a diminuire. Se il percorso per il raggiungimento dell’obiettivo viene suddiviso in diverse fasi, con i relativi tempi, allora possiamo abituarci a ragionare “per gradi”, attraverso un percorso lineare, senza l’ansia di dovere risolvere il problema tutto insieme e troppo velocemente. Facciamo un esempio di psicologia dello sport. Un nuotatore dilettante per diventare un professionista deve abbassare il tempo personale nel fare due vasche in stile libero, di almeno otto secondi in sedici mesi. Sarebbe molto probabile percepire un miglioramento di ben otto secondi, come una montagna troppo alta da scalare in meno di un anno e mezzo. Proviamo adesso a pianificare un metodo di allenamento. Tempo disponibile: 16 mesi; obiettivo: abbassare di 8 secondi il tempo personale. Recuperare 8 secondi in 16 mesi significa recuperare mezzo secondo al mese, ovvero, solo 125 millesimi di secondo alla settimana. Abbiamo trasformato la grande meta finale in tante piccole mete facilmente raggiungibili, ridimensionando la percezione dell’entità del problema. Il nostro nuotatore acquisirà il coraggio necessario per raggiungere la sua meta. Provate anche voi!
Fabio Settipani
Psicologo – Psicoterapeuta