“Ti acceco con le mie dita. Ho preso la mia decisione, anche se mi arrestano c’è chi viene a cercarti. Tu morirai”. Queste sono solo alcune delle tante minacce rivolte al giornalista siciliano Paolo Borrometi che con coraggio racconta la mafia e il malaffare in Sicilia.
Paolo Borrometi, 32 anni, è un cronista siciliano che da oltre un anno vive sotto scorta a causa della numerose minacce ricevute. Sul suo sito “La Spia.it” racconta con coraggio gli affari della mafia di Modica, Vittoria e del ragusano. Con molte inchieste ha smascherato gli affari della mafia in un territorio da sempre considerato esente da infiltrazioni mafiose.
Le ultime minacce sono arrivate attraverso Facebook, il social network più famoso. L’autore di queste minacce è Venerando Lauretta, già condannato per 416 bis in attesa di sentenza definitiva. Minacce che hanno portato all’arresto di Venerando Lauretta e al sequestro di computer, hard disk e smartphone. Non sono le prime che Borrometi riceve sul suo profilo Facebook, ma quest’ultime sono particolarmente forti. Frasi inequivocabili, in puro stile mafioso: “Non ti salva neanche Gesù Cristo. Il tuo cuore verrà messo nella padella e dopo me lo mangerò. Ho preso la mia decisione, anche se mi arrestano c’è chi viene a cercarti, tu morirai. Ora vai pure a denunciarmi voglio pagarti il reato che commetto su di te”. Frasi dure, forti, amare, ma che non hanno scalfito Paolo e la sua voglia di raccontare la verità, in una terra ancora troppo martoriata e infangata dalla mafia e dal malaffare.
Oggi Paolo Borrometi oltre ad essere il direttore del sito “laspia.it” è collaboratore dell’Agi ed editorialista de “Il Tempo”. Per il lavoro che svolge vive lontano dalla sua Sicilia e scortato 24 ore su 24. Siamo andati a sentirlo per rivolgergli qualche domanda:
- Tu oggi sei sotto scorta a causa delle tantissime minacce: una spalla rotta, uno speronamento, un portone bruciato, cosa si prova ad essere “un cronista blindato”?
“Ho sempre pensato, ancor prima che iniziassero le vicende che mi hanno riguardato, che finché ci sarà un giornalista costretto a vivere sotto scorta vorrà dire che avremo fallito la nostra missione. Sogno un Paese libero, dove ognuno possa esprimere la propria opinione e fare il proprio lavoro, senza essere costretto a vivere “blindato”.
Si, è vero. La mia vita è cambiata radicalmente, è cambiata nella quotidianità. Ringrazio i miei angeli che mi stanno accanto, che sono le prime persone che vedo la mattina e le ultime la sera. Eppure se dovessi indicare davvero un episodio che mi cambiò la vita, indicherei quel tragico 16 aprile del 2014. Quella vile e brutale aggressione. Quei due uomini travisati, quelle parole. Le loro pedate. Fu atroce, istanti che non dimenticherò mai. Istanti che hanno cambiato la mia vita e mi fecero capire che non potevano vincere loro, chiunque fossero. No, non potevano vincere. Così ho continuato. E lo voglio dire con chiarezza: ho continuato a fare solo il mio lavoro, così come voi, così come milioni di persone in questo Paese. Nessun eroismo, nessun coraggio. Faccio solo il mio lavoro, ma per farlo non mi piegherò mai, né alle minacce, né alle aggressioni. Una penna è più forte di una pistola!”
“La paura c’è. E’ quotidiana. E’ inevitabile. Come si può non aver paura? E’ ovvio averla. Ho sempre pensato che solo gli stupidi non hanno paura. Io la ho spesso, anche più volte al giorno. Ma cerco di trasformarla in una marcia in più per andare avanti e non in un freno.”
- Ti senti protetto dallo Stato?
“Io ho un altissimo senso dello Stato. In passato, probabilmente, mi sono sentito solo. Ho vissuto una fase davvero atroce e critica, di assoluto isolamento. Oggi no e colgo l’occasione offerta dalla tua domanda per ringraziare chi mi sta accanto giornalmente, ma anche chi svolge le indagini. La Polizia di Ragusa, i Carabinieri di Ragusa, Modica e di Roma, i magistrati della Dda di Catania e della Procura di Ragusa. Che sia chiaro: denunciare conviene, sempre.”
- Come ha risposto la società civile a queste nuove minacce?
“Ho sentito e sento sempre grande solidarietà, solidarietà e vicinanza dalla gente. Però vorrei vedere più persone fare squadra, fare realmente gruppo contro questi guappi di cartone, mezzi uomini che pensano di intimorire. Pensano, magari, di colpirne uno per educarne cento. Ecco, le minacce ricevute le ho sempre considerate come minacce a chi legge, oltre che a chi scrive.”
- Le minacce a “mezzo social” sembrano il risultato di una “mafia 2.0” cioè una mafia moderna, che utilizza i social per comunicare e anche per minacciare, senza nascondersi dietro l’anonimato, tu che idea ti sei fatto in merito a questa “mafia moderna”?
“Penso che le mafie si adeguino ai tempi, anzi forse sono molto più avanti dei tempi. Sono convinto che ci sia troppo indulgenza per ciò che si scrive a mezzo “social”, considerando questi strumenti come degli “sfogatoi”. Io ribalterei l’idea e spero presto che il Parlamento possa legiferare e dare strumenti ai magistrati per condannare e punire con punizioni esemplari chi cerca di minacciare pubblicamente.
Ricordiamoci che, come dicevo prima, minacciare pubblicamente non è solo colpire il destinatario del messaggio in questione ma cercare di intimidire l’opinione pubblica. Questo è inaccettabile, va fermato a tutti i costi.”
- Hai lasciato il tuo paese, Modica, ormai da qualche anno, soffri questa distanza?
“Tornerò presto. Io amo la mia Terra. Continuo ad occuparmene anche non vivendoci fisicamente. Sono convinto che la mia terra, la Sicilia e più nello specifico la Provincia di Ragusa sia baciata da ogni fortuna, paesaggistica e architettonicamente, ma ha il cancro della mafia, così come diverse zone d’Italia. Bisogna ammetterlo, senza mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi.
Il grande, imperdonabile, problema è stato rappresentato dalla sottovalutazione, l’autoconvinzione che in questa terra non ci fosse la mafia. Questa convinzione, da un lato autoassolveva le coscienze, dall’altro aiutava la mafia e gli interessi mafiosi a prosperare. Bisogna invertire questa tendenza, accettando il cancro per lottarlo ed estirparlo. Raccontando ciò che non va.”
- Se potessi tornare indietro rifaresti tutto da capo o c’è qualcosa che cambieresti?
“Tutto. Certo non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa situazione, ma rifarei tutto. Anche perché, lo ripeto, sto cercando di fare soltanto il mio lavoro.”
- Dopo le ultime minacce tu hai dichiarato più volte che non demordi, continuerai per la tua strada. Cosa vuol dire raccontare la verità in terra di mafia?
“Vuol dire scontrarsi con mille diffidenze, con grandi gruppi di potere, con mafiosetti arroganti, con invidie e gelosie. Vuol dire continuare a lottare contro i tentativi di delegittimazione quotidiana. Vuol dire provare a dare un contributo, affinché raccontare una “terra di mafia” sia solo un ricordo.”
- In Sicilia, come in tante altre regioni d’Italia, fare vera informazione non è una cosa semplice, oggi tu, da giovane cronista, ti senti di dare qualche consiglio ai giovani cronisti che vorrebbero intraprendere questa strada?
“Solo di provarci, di inseguire una passione, di inseguire un sogno. Il sogno di dare il proprio contributo ad un Paese che ha bisogno di verità, di cambiamento. Non arrendersi al corso delle cose, vuol dire anche fare il proprio lavoro quotidiano, sempre e solo questo.”
Grazie per il tuo tempo. Ne approfitto per rinnovare stima e solidarietà da parte mia e della redazione di Alqamah e un invito a perseverare nella tua attività quotidiana.
“Grazie a voi ed ai vostri lettori. Bisogna fare squadra, bisogna parlare delle mafie perché parlarne è già un primo modo per smascherarle!“