Di Antonino Messana
Verso la conquista di Sicilia si avviò Ruggero. Qui i Saraceni si trovavano in piena decadenza; sottrattisi a ogni dipendenza dagli Arabi d’Africa, si era sviluppato fra i Musulmani una specie di sistema feudale, con la divisione del territorio in varie piccole signorie (emirati), ostili fra loro e infesti agli abitanti (1035).
L’emiro di Siracusa e di Calabria, spodestato da quello di Agrigento, si rivolse in aiuto a Ruggero, offrendogli l’occasione di intervenire in Sicilia (1061). Per prima lo accolsero Messina, occupata con un audace colpo di mano, e Troina; Ruggero, abilmente sfruttando i dissidi fra gli emiri e fra questi e la popolazione indigena, andò estendendo la propria conquista che, sebbene ritardata dalla scarsezza e dall’indisciplina dei combattenti e dai dissidi con Guiscardo, nel 1072, con la caduta di Palermo, era sostanzialmente compiuta. Molti dei ricchi arabi preferirono andarsene e Ruggero, confiscati i loro beni, ne tenne una parte per sé, altri le cedette alla Chiesa e ai suoi guerrieri fedeli; ai Saraceni lasciò libertà di culto e le loro proprietà, purché ubbidissero al governo normanno. La Sicilia ebbe ordinamento feudale, fu retta da Ruggero con il titolo di Conte e considerata come feudo del Ducato di Puglia.
Il regno Normanno rimase un fenomeno caratteristico della storia medievale. La monarchia era ordinata in modo quasi assoluto: il titolo dei nuovi sovrani era Rex Siciliae et Apuliae. Il regno ebbe ordinamenti feudatari mutuati dalla Normandia; ma i feudatari dipendevano direttamente dal re, il quale non permetteva che si vincolassero ad altri con giuramento di fedeltà, né che alienassero feudi senza il permesso regio. Al re era riservato il potere giudiziario; egli aveva anche autorità sul clero, potendo nominare i vescovi e trasferirli da una ad altra sede. In queste condizioni l’illuminata e forte autorità monarchica poté piegare a disciplina i divergenti interessi di genti diverse considerate pari tra loro senza pregiudiziali esclusivismi. Ne derivò una grande prosperità, che si manifestò nella intensità del commercio, nella ricchezza del vivere, nella fioritura delle arti, nella diffusione della cultura.
Palermo divenne allora il centro di una civiltà ricca e singolare (vi tennero botteghe Amalfitani e Veneziani), Messina fu uno degli scali più frequentati dai Genovesi. La corte Normanna divenne un importante centro culturale, dove furono accolti prelati cattolici e greci e dotti musulmani (per i nostri fini, devo ricordare il geografo arabo Idrisi, con Ruggero II)
Con Ruggero II d’Altavilla nacque il primo Regno di Sicilia. Esempio, senza precedenti in Europa di uno Stato moderno. Esso comprendeva anche la Calabria e la Puglia.
Con Guglielmo I il Malo, successore nel 1150 di Ruggero II, si ebbe un periodo di dannose guerre civili a causa della prepotenza dei baroni e del malcostume del re. Dopo di lui tenne il regno Guglielmo II il Buono (1166-89), con il quale si ebbe un nuovo periodo di splendore, con buoni successi militari contro Bizantini e Saraceni e con la politica a favore dei papi e dei comuni contro Federico Barbarossa. Guglielmo II non lasciò morendo discendenza maschile, e non vigendo nel regno la legge Salica, unica erede al trono divenne Costanza, zia di Guglielmo. Il Barbarossa chiese la mano di lei per il proprio figlio Enrico, e il matrimonio fu celebrato a Milano nel gennaio 1186. Così i diritti di successione al trono di Sicilia e di Puglia furono trasferiti a Enrico VI. Contro d lui si posero i grandi signori Normanni, e con l’elezione a re di Tancredi, conte di Lecce, nato da un figlio illegittimo di Ruggero II, iniziarono una lotta che finì con l’uccisione da parte di Enrico del figlio e successore di Tancredi, Guglielmo III.
Enrico morì improvvisamente nel 1197, lasciando sotto la tutela di Costanza un bambino di tre anni, il futuro Federico II. Alla gloriosa dinastia normanna succedeva la nuova dinastia degli Svevi. Interessanti, sintetiche ed esaustive, le due pagine (59-60) – DAI NORMANNI AGLI SVEVI (così suddivise:Premessa-Enrico VI di Svevia – Costanza d’Altavilla-Federico Hoenstaufen) di Crociata Antonino Michele.
Continuando il discorso storico, riporto quanto, in proposito, scrive Tesoriere che con poche parole chiarisce l’assetto di una nuova civiltà in Sicilia. La conquista normanna iniziò nel 1061 con l’occupazione di Messina, la distruzione in questa città delle fortificazioni saracene e l’erezione di un nuovo fortilizio. Successivamente vennero attaccati i presidi musulmani di Centuripe, Petralia e venne conquistata Palermo. La Sicilia, già nel 1077, era quasi tutta in potere degli Altavilla ad eccezione della estrema parte occidentale e di Taormina, spina nel fianco delle posizioni normanne nel messinese. Le lotte continuarono con la resa di Girgenti (1087) e poi dell’estrema sacca sud-orientale (Noto, Butera).
Circa trent’anni di guerra, di assedi, di distruzioni tormentarono la Sicilia prima che si assestasse il predominio normanno. Molti centri fortificati saraceni vennero distrutti (Judica, Burgamum, vicino Girgenti) e nuovi fortilizi vennero costruiti dai normanni nel corso della conquista (Messina, Paternò, Palermo, Petralia, S. Marco, Girgenti, Noto).
LA VIABILITA’ IN SICILIA NELL’ALTO MEDIO EVO
Gli storici, per convenzione hanno stabilito che l’età medievale ha inizio nel 476 d.C. e termina nel 1492 con la scoperta dell’America; quindi, il periodo chiamato “alto medievale”, parte appunto dal 476 e termina tra i secoli X-XI dopo la conquista normanna.
Nella parte VIII del capitolo I, pubblicato il 31 ottobre scorso, dopo una premessa storica a carattere introduttivo, mi sono soffermato sulla viabilità in Sicilia, sia nel periodo bizantino che in quello arabo, tanto da coprire l’intero X secolo. Adesso, per evitare ripetizioni, accenno, per sintesi, con le parole di Uggeri, a questo periodo per sintetizzare l’argomento dell’avvento dei Normanni, e poi soffermarci su Ruggero II e la sua corte e Federico II per le “Costituzioni” concesse al popolo siciliano.
Uggeri scrive: Con il progressivo venir meno di un saldo controllo centrale, molte opere di restauro furono trascurate e, naturalmente, ne soffrirono maggiormente quelle arterie a tracciato prevalentemente artificiale, lungo le quali ponti e viadotti non furono più restaurati.
Nell’isola, in particolare, dovettero soffrire maggiormente le arterie che percorrevano le zone argillose più instabili ed interessati da calanchi nelle aree centro-settentrionali, dove della viabilità antica si perse addirittura ogni traccia; mentre in altre zone, come nella cuspide sud-orientale, poco poteva risentire del progressivo abbandono un sistema stradale costruito da semplici carraie, intagliate nel terreno roccioso dal secolare attrito delle ruote.
Da quello che abbiamo letto discendono almeno due considerazioni; la prima è la seguente: le aree centrali erano attraversate da quattro e addirittura cinque strade romane (Vedi parte III capitolo I, pubblicato il 20 giugno scorso). Catania era collegata con Palermo e Termini, Agrigento con Palermo, Catania con Agrigento, e infine, Tusa con Licata passante per Enna (quest’ultima è stata pubblicata nella parte VII precedente del 31 ottobre scorso). Erano tutte strade che passano per il cuore della Sicilia e alcune proseguivano a settentrione ( Palermo, Termini). Se queste strade sono state abbandonate ed alcune addirittura scomparse, come avvenivano i collegamenti? Forse sopperivano le Regie Trazzere considerato che ne dovevano esistere ben 11.500 Km.. Ciascun Comune lo può scoprire osservando i “quadri di unione” redatti dall’Ufficio Trazzere. Ma ciò è poco probabile o meglio assurdo. Il secondo dilemma è il seguente: tutte le strade costruite su carraie non possono essere Regie Trazzere per il semplice motivo che non c’è pascolo e, quindi, non c’è transumanza. Il sito “literary” ne elenca 9 e sono:
– COZZO TELEGRAFO – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, N.E. – WB 126272.
– CONTRADA MANGANO – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, IV,S.E.- WB 153217.
– BRUCOLI – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F. 274°, IV, N.E. – WB 166259.
– BANCO GISIRA – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, IV, N.E. – WB 149267.
– TORRENTE S. CALOGERO – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, N.E. – WB 105283.
– QUARANTAMIGLIARA – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, IV N.O. – WB 246188.
– COSTA MENDOLA – Territorio del comune di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, IV, S.E.- WB 14322
– BERNARDINA – Territorio del comune di Melilli, limitrofo a quello di Augusta. Carta IGM 25.000 – F° 274, IV, S.O. – WB
– INTERRATA-PANTANO – territorio del comune di Carlentini. Carta IGM 50.000 – F° 641 Augusta.
Mi auguro di tutto cuore che l’Ufficio Trazzere qualcuna di queste vie non l’abbia promossa a trazzera armentizia.
Tornando ad Uggeri, possiamo leggere: Crollano naturalmente i ponti e, man mano che non si fu più in grado di ricostruirli, si cercarono guadi e traghetti per l’attraversamento dei fiumi, del resto di scarsa portata o asciutti per gran parte dell’anno (in questo
caso c’è l’alternativa; ma, se le strade non esistono più, quale potrà essere un’altra alternativa per camminare su terreno ? L’unica è costruire nuove strade). Subentra il traghetto con la barca, come sul Simeto a Paternò, ma specialmente alle foci, come a Primosole, sempre sul Simeto, o a Licata sul Salso.
Di pari passo col deterioramento del sistema stradale romano (in mancanza di altre strade alternative), il progressivo ridursi dell’uso del carro alla pianura ed al suburbio, comportava il prevalere dell’uso delle “redine”, ossia di carovane di bestie da soma, che permettevano il trasporto a basto delle derrate, in file formate perfino da otto muli o asini, guidati da un “bordonaro”.
Infatti, anche i grandi cultori italiani e stranieri che tra il 1700 ed il 1800 hanno visitato la Sicilia, sono stati guidati da un bordonaro cavalcando muli ( in particolare mi ha colpito il doppio viaggio in Sicilia dell’architetto francese Jean Pierre Huoel 1776-1779 che racconta di avere avuto un bordonaro, il mulo ed un fucile a spalla come un comune personaggio siciliano).
La redina livellava progressivamente le esigenze di tutte gli itinerari, dalle grandi strade romane alle “trazzere” ed ai percorsi più modesti, ma pur sempre accessibili per rèdine e lettighe per muli.
I letti secchi delle fiumare divennero strade maestre, come nel caso delle valli dell’Imera settentrionale e dei Platani. Della strada antica che conduceva a Taormina scomparve ogni traccia. Uggeri in nota riporta: Il tracciato dell’antica strada è senza dubbio scomparso o forse il suolo sconvolto non ne porta alcuna traccia: infatti dalla piccola baia che è la marina di Taormina fino a raggiungere la città, si sale, non senza pericolo, un sentiero estremamente erto: viaggio Denon (1779), in settecento siciliano, I, p.181. Anche nella relazione del Persichelli (1779) la salita del paese di Taormina risulta così ripida che né in lettiga né pure a cavallo vi si poteva salire e scendere; conveniva rampicarsi a piedi conducendo a mano i cavalli o muli; e se mai alcuno animale veniva il piede in fallo, il più sicuro espediente era quello di abbandonarlo e lasciarlo precipitare giù per quelle profondissime balze…; ma, tempo permettendo, conveniva aggirare in barchetta il capo detto di San Leo: Storia di Sicilia, III, p. 472. Fino al settecento molti itinerari furono descritti dai viaggiatori come pericolosi precipizi piuttosto che come vere strade; si pensi ai tristi “malpassi”, temuti ed evitati, di Tindari (è bene ricordarsi che Tindari è attraversata dalla consolare Valeria, riconosciuta tale e quale dall’Ufficio Trazzere e trasformata in Regia trazzera; adesso apprendiamo che è un “malpasso”.) e di Taormina. Ancora in nota è scritto:…Esemplifico dal viaggio del Denon (1778), da Enna verso Termini: scendemmo per un viottolo che somiglia più ad un precipizio che ad una strada, in direzione di Calascibetta (Settecento Siciliano, I, p. 224); da S. Martino discendemmo per una strada disagevole per Monreale (p. 243); a Erice ritrovai, effettivamente, il cammino tortuso e scosceso di cui parla Livio, che rendeva l’avvicinarsi alla città tanto difficile (p. 257); tra Selinunte e Sciacca c’è il ponte sul Belice, ma due ruscelli sono senza ponti (p. 270).
Dalla relazione di del Persichelli (1779): il passo chiamato le valanghe di Tusa, quelli detti di Torcicoda e di Naso, quella calata che si dice la scala di Patti (pure Patti è attraversata dalla Valeria, trasformata in Regia Trazzera) e molti altri luoghi presentano terreni di siffatta qualità che, per quanto denaro vi si profonda per costruirvici sopra una strada, niun ingegnere vorrà prometterla…di qualche durata…; allora la mulattiera tra Palermo e Messina correva su d’una strettissima strada racchiusa tra il piede di altissime rupi e il mare che ne’ grossi tempi co là frange e inonda tutto il suolo (Storia di Sicilia, III, p.472).
Ancora ai tempi di Antonio Nibby vediamo che Centuripe appare situata sopra un alto monte isolato, di circa un’ora e mezza di disastrosa salita (itinerario cit. p. 40).
L’ubicazione dei luoghi e delle città è precisa e puntuale, tanto che coinvolge i quattro punti cardinali, compresa la parte centrale dell’Isola (Enna, Centuripe, Calascibetta, ecc..). Anche la bibliografia riportata è precisa richiamando il titolo del libro, la pagina e l’autore. Allora, se è vero che in questi luoghi come: Monreale, S. Martino (delle Scale), Tindari, Patti, Calascibetta, Sciacca, Naso, c’erano le trazzere come mai non le hanno percorso e nemmeno le hanno nominate? Rispondo subito: in quei luoghi e neanche nei circondari non c’era ombra di trazzera. Desidero ardentemente che qualcuno provi il contrario.
Allora con i citati autori: Denon Vivant Dominique, Persichelli e Antonio Nibby, ed aggiungendo Goethe, Houel, Balsamo ed altri, si arricchisce notevolmente la letteratura, italiana e straniera, di notabili che hanno scritto a chiare lettere la mancanza di strade in Sicilia. Come, riferimento di altri nomi, il lettore, se vuole, può rivisitare l’Introduzione-parte II e parte III della presente rubrica, pubblicate rispettivamente il 14 febbraio ed il 7 marzo scorso, dove ho riprodotto: la mappa di Perez con i tracciati delle principali strade della Sicilia dal 1778 al 1860; la copertina del libro “Viaggio in Sicilia” (1823) di Federico Munter. Inoltre, ho già citato, numerose volte ed, in più parti del presente lavoro, Villabianca, riproducendo pezzi dei suoi manoscritti in originale. Tutti questi personaggi che hanno visitato e soggiornato in lungo ed in largo la Sicilia descrivono, come sopra abbiamo letto, non solo la mancanza di strade, ma anche la pericolosità di quelle esistenti tanto da mettere in rischio la vita.
Se le trazzere dovevano esistere nella Sicilia arcaica, come mai al limite del II millennio dopo Cristo non esistono più strade, ma solo precipizi e si ritorna alle vie del mare come ai tempi di Cicerone? Allora, dove erano le 690 trazzere (numerate da 1 a 690) per complessivi 11.460 Km. disegnate dall’Ufficio Trazzere alla fine del 1700? Spero tanto che questa domanda arrivi a bisbigliare all’orecchio di uno dei numerosi dipendenti o funzionari dell’Ufficio Trazzere che gentilmente ci fornisca una esauriente risposta.
In seguito dedicherò un capitolo specifico sui citati visitatori della Sicilia e mi soffermerò con puntali documenti sugli avventurosi percorsi seguiti da questi illustri, letterati personaggi.
Riprendo Uggeri per ravvisare un itinerario tratto dalla geografia dell’anonimo Ravennate. Si tratta della strada interna che congiungeva trasversalmente la litoranea tirrenica con l’asse longitudinale Catania-Enna, passando per Mistretta ed Agira, attraversando di conseguenza il distretto, tipicamente rupestre, di Nicosia e raccordandosi con altra arteria longitudinale, che passava per i centri rupestri di Sperlinga e Troina. Detto percorso è citato nella precedente puntata come via bizantina da Arcifa.
Nell’alto Medioevo per trasporti di una certa entità si doveva tuttavia scendere alla costa più vicina e poi proseguire per via di mare, come si era fatto d’altronde all’epoca di Cicerone e come si continuò a fare fino all’età moderna con il sistema dei caricatori (Vedi capitolo I, parte VIII, pubblicata il 31 ottobre scorso) funzionali cerniere del sistema flessibile terra-mare per l’esportazione del grano, ma anche per l’importazione del ferro e dei prodotti finiti. Anche qui, le trazzere, che secondo l’Ufficio Trazzere dovevano all’epoca esistere, non sono neanche accennate e, quindi, non sono vie alternative, se per caso, esistevano (la prova, secondo la legge, la deve sempre fornire l’Ufficio Trazzere).
Chiudo l’argomento citando per finire l’Uggeri che afferma: La documentazione sulla viabilità della Sicilia si arricchisce improvvisamente con le carte normanne, che forniscono una ricca casistica delle più disparate arterie viarie e delle possibilità di collegamento e di trasporto. Argomento che verrà ripreso con la parte II parlando del conte Ruggero e del geografo arabo Edrisi chiamato nella sua corte.
LE ORIGINI DELLE TRAZZERE
Nel linguaggio comune la trazzera è una qualsiasi strada di campagna che permette di accedere ai fondi lungo il suo tragitto. Gli esperti di linguistica fanno derivare il termine trazzera dal latino tractus (cioè tracciato), altri dall’antico francese drecière (via dritta) e drecièr (raddrizzare). Infatti, esse sono state tracciate rispettando l’andamento naturale del terreno sia in discesa che in salita al fine di conseguire un’andatura rettilinea il più possibile e risparmiare la costruzione dei ponti.
Il termine trazzere vale solo per la Sicilia e sono nate, secondo gli storici, in tempi remotissimi, per il pascolo del bestiame, in particolare bovini, ovini e caprini, durante la transumanza. In Abruzzo e Puglia le trazzere vengono chiamati tratturi. Da sottolineare che, le per le odierne strade pubbliche, sono state utilizzati i tracciati delle vecchie trazzere. Queste trazzere, pur nascendo, in tempi preistorici (come suppongono gli studiosi), si consolidano, tuttavia, nei tempi in cui l’economia fondiaria in Sicilia aveva carattere feudale; è scritto che, nella concessione del feudo il sovrano, quale domino diretto, intese riservare al demanio regio (regalia) il diritto di passaggio attraverso il medesimo feudo a favore dei membri della collettività, e sottrarre al fondo quella zona di territorio ritenuta indispensabile per la trasmigrazione degli armenti (da non perdere dalla memoria che per i Romani le strade costituivano delle servitù di passaggio; altro che regalia). Ecco, la ragione che le vie armentizie si distinguevano dalle vie pubbliche perché erano zone di terreno incolte destinate e lasciate da tempo immemorabile e senza alcuna opera di sistemazione ad uso di pubblica via destinate, essenzialmente, al transito degli armenti (l’immemorabile è solo una deduzione, e senza alcuna prova).
Santagati a proposito dei percorsi, così scrive: le trazzere erano costituite, perlopiù, da tracciati spesso abbozzati, che percorrevano vallate, pianure e montagne nella maniera più retta possibile senza tener gran conto di pendenze e corsi d’acqua ed adatte, principalmente, ad essere percorse solo da sparuti viaggiatori e mercanti a cavallo o trasportati da lettighe, da interminabili file di muli tra loro legati a sei a sei e condotti da un bordonaro (conduttore di animali) carichi di mercanzie. Tutte notizie già apprese con Uggeri, sopra riportate.
Infine, la parola trazzera si legge per la prima volta nel dispaccio viceregio del 21 aprile 1785 a firma del marchese Caracciolo, nel quale raccomanda il libero transito del bestiame attraverso, appunto, le trazzere. Il predetto dispaccio usa le seguenti testuali parole: “…che non usasse che per qualunque pretesto d’impedire il transito e passaggio di detti animali del ricorrente nelle pubbliche trazzere senza obbligarli ad alcun abusivo pagamento…
In conclusione, è stato scritto che le regie trazzere si sono formate nel corso dei millenni (però, come abbiamo visto, fino al 1800 in Sicilia non esistevano strade), tanto che cominciano a svilupparsi in epoca preistorica per la transumanza degli animali e successivamente, per collegare i primi insediamenti abitati (già ci sono i presupposti di una comune strada, adatta sia alla transumanza che al transito degli uomini). Queste trazzere subirono ulteriori incrementi quando, nel II e I millennio a.C., aumentarono le necessità di collegamento tra nuovi centri abitati che si andavano costituendo in tutta l’isola; fenomeno legato, soprattutto, all’aumento della popolazione. In coincidenza con l’occupazione greca in Sicilia (VIII -III secolo a. C.) si andarono fissando definitivamente alcune linee di collegamento, che inalterate nella sostanza del tracciato anche in epoca romana, sono giunte (almeno sulla carta) fino ai nostri giorni.Studi più vecchi affermano che i tracciati delle regie trazzere
siciliane risalgono tra il III ed il I millennio a.C.. Sono soprattutto: la trazzera delle vacche e la trazzera dei jenchi; La trazzera Agrigento – Palermo e Agrigento-Catania; le trazzere lungo il corso dei fiumi Dittaino e Gornalunga; le vie della Sicilia sud – orientale. Quest’ultime, come abbiamo visto, sono tutte strade romane e non trazzere, che sono andate in rovina.
La mappa mostra chiaramente la partenza dalla “trazzera delle Vacche” da Cesarò (Messina) per finire a Castronovo (Palermo), da qui, si unisce con la “trazzera dei Jenchi” per terminare nel Trapanese, passando per Prizzi e Corleone (Vedi anche cap. I, parte I, pubblicato il 30 maggio 2015).
FONTE FOTOGRAFIE: SICILIANO.IT
Di recente il Santagati, sulla base di nuovi documenti, alcuni dei quali glieli ho forniti proprio io (tanto che mi ha citato), in un nuovo studio presentato al Convegno del 17-18 maggio 2014 presso Monforte S. Giorgio elenca le seguenti principali trazzere di transumanza:
1) la Via dei Jenchi e delle vacche;
2) la trazzera mari e monte;
3) il guado di Imera sul Salso;
4) trazzere minori.
Per evitare ripetizioni, ciascuna trazzera di cui sopra è stata dettagliatamente illustrata nel capitolo I – parte I, pubblicato il 30 maggio 2015.
Antonino Messana
La prossima puntata del secondo capitolo verrà pubblicata Sabato 9 Gennaio 2016.
NOTE
Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo (l’Astuto) – Duca di Puglia nato ad Hauteville-la-Guichard (Normandia) nel 1025 morì a Cefalonia nel 1085. Sesto figlio di Tancredi d’Altavilla, fra il 1046 e il 1077 conquistò tutta l’Italia meridionale, ponendo fine alla presenza bizantina e longobarda e ricevendo il titolo di Duca di Puglia, Calabria e Sicilia dal papa Nicolò II che accettò l’amicizia dei Normanni per allontanare l’ingerenza di Bisanzio e del Sacro Romano Impero negli affari della Chiesa. Costituito il proprio Stato, Roberto annullò con abilità le ribellioni dei signori feudali e delle città, ristabilì la pace e riorganizzò l’amministrazione dei suoi domini. Sempre preoccupato della potenza dei bizantini nell’Adriatico, avviò una spedizione contro di essi, ma morì nel corso dell’assedio di Cefalonia. Fonte: Grande Dizionario Enciclopedico Utet – terza edizione Torino 1969, volume XIII pag. 420.
Cefalonia è l’isola più grande della Grecia; nel Medioevo (secolo XI) costituì il centro bizantino sull’Ionio. Successivamente l’isola fu occupata dai Normanni dove morì Roberto il Guiscardo.
Manfredi Re di Sicilia, nacque a Venosa (provincia di Potenza-Basilicata) nel 1232, figlio naturale di Federico II e di Bianca dei conti di Lancia, la quale fu sposata prima della morte dell’imperatore (forse legittimato dopo il matrimonio). Studiò a Parigi e a Bologna; e dal padre apprese l’amore per la poesia e per la scienza, amore che mantenne da re. Sposò Beatrice di Savoia (1248 o ’49) vedova del marchese di Saluzzo, e ne ebbe la figlia Costanza. Federico II morendo (dicembre 1250) gli affidò la luogotenenza in Italia e in particolare il regno di Sicilia. Divenne reggente per l’imperatore Corrado IV (suo fratellastro) che scavalcò nel 1258 e fu incoronato a Palermo. Fra il 1258 e il 1260 la sua potenza si rafforzò e si estese rapidamente in tutta Italia, essendo egli divenuto ovunque capo della parte ghibellina (Dante e il dolce stil nuovo). La signoria di Manfredi si estese anche in Oriente, sulle terre portategli in dote dalla seconda moglie Elena, figlia del despota Pirro re dell’ Epiro.; la sua potenza si incrementò ancora con il matrimonio di sua figlia Costanza con Pietro III d’Aragona (1262). Falliti i tentativi di alleanza con il papato francese; Urbano IV, successore di Alessandro IV, riprendendo un disegno di Innocenzo IV, offrì la corona di Sicilia a Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX , re di Francia che aveva già posto piede in Italia ottenendo la signoria di vari comuni piemontesi. Concluso l’accordo definitivo con il nuovo papa Clemente IV , Carlo conquistò l’Italia e , da ultimo, nella battaglia di Benevento il 26 febbraio del 1266 Manfredi muore. Dante lo nomina nel canto III del Purgatorio. Fonte: Grande Dizionario Enciclopedico Utet – terza edizione Torino 1969, volume XI pag. 808
Purgatorio, Canto III
Incontro con Manfredi
o mi rivolsi ver lui e guardai fiso.
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso
Quand’ io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperatrice;
ond’ io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
Il poeta lo osserva e lo guarda con attenzione, vedendo che è biondo, bello e di nobile aspetto, e ha uno dei sopraccigli diviso da un colpo. Dopo che il poeta gli ha risposto di non averlo mai visto, il penitente gli mostra una piaga che gli attraversa la parte alta del petto; quindi si presenta come Manfredi di Svevia, nipote dell’imperatrice Costanza d’Altavilla, egli prega Dante, quando sarà tornato al mondo, di dire a sua figlia Costanza la verità sul suo stato ultraterreno. Manfredi racconta che dopo essere stato colpito a morte nella battaglia di Benevento, piangendo si pentì dei suoi peccati e nonostante le sue colpe fossero gravissime fu perdonato dalla grazia divina.
Venosa, cittadina della Basilicata in provincia di Potenza; il suo nome latino fu Venusia e la leggenda ne attribuisce la fondazione a Diomede, ma fu sicuramente un centro occupato dai Romani nel 290 a. C., vi nacque Orazio Flacco (del carpe diem). Dal V secolo fu sede vescovile, fu saccheggiata dai Saraceni. Caduta in potere dei Normanni, fu data al conte Dragone d’Altavilla. Nel 1232 vi nacque Manfredi. Nella chiesa SS. Trinità sono sepolti Guglielmo, Dragone,Umfredo (figli di Tancredi), Roberto il Guiscardo e la moglie Aberata. Fonte: Grande Dizionario Enciclopedico Utet – terza edizione Torino 1969, volume XIX pag. 340
Il Platani nasce dall’altopiano del Cassaro cioè il sito di Castronovo (monti Sicani) e sbocca a Eraclea Minoa. Con la pace tra i Cartaginesi e Siracusa il fiume è stato il punto di divisione dei due territori.
Il ponte vecchio sul fiume Platani
Il ponte sul Platani in territorio di Castronovo di Sicilia denominato ponte vecchio fu costruito nel XVI secolo dal comune per evitare che nel periodo invernale ci fossero difficoltà ad oltrepassarlo, che ostacolassero il trasporto di merci ed il passaggio di viaggiatori: il guado del fiume avveniva dapprima all’altezza della Chiesa di san Pietro (sempre nella circoscrizione di Castronovo; vicino alla PA-AG).L’arcata del ponte, al di sotto della quale scorre il Platani, è a tutto sesto, mentre la struttura del passaggio è a schiena d’asino.Si trova accanto ad uno nuovo sulla strada che da Castronovo conduce a Cammarata.
di Danilo Caruso (WWW.RETAGGIODELLEGENTI.COM)
Bibliografia
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Arcifa Lucia, Viabilità e insediamenti nel Val Demone. Dall’età bizantina all’età normanna, in La Valle d’Agrò: un territorio, una storia, un destino. I L’età antica e medievale, a cura di C. Biondi, Convegno Internazionale di Studi (Forza d’Agrò 2004), Palermo 2005, pp. 97-114.
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Uggeri Giovanni – Il sistema viario in Sicilia e le sopravvivenze medievali, 1939. Custodito dalla Biblioteca centrale della Regione Siciliana. Collocazione PAL 0260516.