Sebastiano Bagolino nacque il 25 marzo 1562 ad Alcamo da Giovan Leonardo, pittore veronese residente ad Alcamo, e da Caterina Tabone.
Quest’ultima, figlia dell’aromatario Pietro Tabone, apparteneva ad una casata di censo mediocre e ragguardevole per l’onorata professione di giureconsulti, medici, notai e tale condizione assicurò al poeta un’infanzia tutto sommato agiata e l’eredità di un modesto prestigio intellettuale.
Da piccolo venne pertanto avviato ai principi dell’arte paterna e a quelli della musica.
Ma sin da subito fu chiaro che la sua vera vocazione era lettere e, oltre alla dote naturale, ebbe la fortuna di avere come maestro un personaggio d’una certa valenza: Marco Gentiluccio da Spoleto, giureconsulto d’una certa ambizione, che a seguito di alcune situazioni si era stabilito ad Alcamo, dove diresse una fiorente scuola di grammatica.
La naturale abilità di Bagolino nella composizione di versi latini gli constò l’ammissione, ancora giovanissimo, nella casa di Francesco Moncada, principe di Paternò, che aveva un ruolo da mecenate per diversi letterati.
Ma la voglia di discostarsi dal provincialismo e quella di inserirsi in un ambiente culturale più aperto lo spingono a soli 19 anni a trasferirsi a Napoli per completare la propria preparazione nella città che tradizionalmente rappresenta il centro ideale degli studi umanistici.
Così nel 1581 si stabilisce nella città partenopea dove, per sostenersi, insegna poetica ad alcuni giovani delle nobili famiglie Poderico e Carrafa. In questo ambiente riuscì ben presto a scrivere e a parlare in maniera perfetta in latino, italiano e spagnolo e a dettar versi che gli fruttarono la stima tra personaggi di spicco del panorama culturale locale, tra cui Giovanbattista La Porta, il quale sottopose all’esame di Bagolino i suoi libri De humana physiognomonia prima di mandarli in stampa.
Tornato in Sicilia, si fermò a Palermo, tornando nuovamente sotto l’ala protettiva di Francesco Moncada, e nel 1951, a seguito della morte del mecenate, Bagolino decide di tornare ad Alcamo.
In quel periodo, di frequente soggiornava in città, in quanto governatore, Annibale Valguarnera, barone di Godrano, uomo colto e mecenate di diversi letterati. Anche per questo motivo, Bagolino strinse con lui una fraterna amicizia, che gli diede innumerevoli benefici, che vennero ricambiati con una moltitudine di componimenti a lui dedicati.
Nel 1592 sposa Francesca Battiata, forse anch’essa scrittrice o più verosimilmente semplice ispiratrice del marito che dettò alcune rime in suo nome.
In quegli anni decise allora di aprire una scuola privata di grammatica ove ebbe come allievi Sebastiano La Rocca, che si addottorò poi in teologia, Giuseppe Grimaldi, Vincenzo e Niccolò Odaglia, poeti entrambi e benemeriti della reputazione letteraria del maestro avendo conservato e tramandato alcuni suoi scritti.
Contemporaneamente dipingeva, fregiava di eleganti disegni i manoscritti delle poesie e forse le ordinava pensando a una eventuale stampa da affidarsi a un editore palermitano; continuava – sembra con scarsi proventi – a impartire lezioni di pittura e di musica, fino al 1595 quando gli fu proposto di occuparsi della traduzione degli Emblemas morales del vescovo Giovanni Orozco.
Bagolino decide allora di trasferirsi ad Agrigento per eseguire la traduzione d’intesa con l’autore e, per breve tempo, riesce a stabilire con l’Orozco rapporti di stima reciproca e anche di familiarità nella quale Bagolino intravvede i primi segni di una benevolenza destinata a diventar favore e condizione di vita dignitosa e tranquilla.
Ma anche questa volta l’amicizia va in frantumi, sembra per certi dissensi d’ordine letterario intervenuti proprio nel corso della versione, lasciando un infinito seguito di polemiche astiose che impegneranno a lungo il poeta alcamese in un’opera di pedante e minuziosa autodifesa.
Tornato nuovamente ad Alcamo lo sfortunato poeta deve necessariamente tornare ad insegnare per vivere e nel 1598 viene chiamato ad insegnare presso il ginnasio pubblico “coll’assegno di dieci onze annue, oltre un contributo degli allievi, giusta l’usanza”.
Il lavoro da professore, sebbene non gli desse la giusta soddisfazione, gli permetteva comunque di sostentarsi e, nonostante l’impegno, non distolse l’attensione dalla sua grande passione della poesia: i suoi carmi accrescevano sempre di più la sua fama, non solo in Sicilia, ma anche in tutta Italia.
Nel 1604, sentendosi venir meno la vita produsse i più stanchi e attardati versi di pentimento e la notte del 26 luglio di quell’anno lo scrittore si spense a soli 42 anni senza che avesse potuto veder ultimata la stampa di almeno una scelta delle sue poesie, alla quale attendeva forse già da qualche anno.
A seguito delle esequie solenni, le spoglie di Bagolino vennero sepolte nella Chiesa del Crocifisso, de Minimi di San Francesco di Paola, ove, dopo ben tre secoli di attesa, nel 1907, fu posto un semplice marmo a ricordo del poeta, con su scritto un epitaffio che lo stesso Bagolino si era scritto cinque anni pima di morire:
Tu quicumque mei ferris per saxa sepulcri,
Attonitus lacrymes non rogo morte mea;
Sed responsurae tantum iace verba favillae,
‘Et dicas : cinis hic num Bagolinus erat?
“Tu, chiunque sia, ti recherai tra i sassi (pietre) del mio sepolcro, / (io) attonito non (ti) chiedo lacrime per la mia morte; / ma soltanto le ceneri possono (far) riecheggiare parole per un morto, / e potresti dire: ‘questa cenere era forse Bagolino?”.
La raccolta che non riuscì a vedere ultimata prima della sua morte sembrerebbe essere Sebastiani Bagolini Carmina (edita sicuramente a Palermo e con ogni probabilità proprio nel 1604) poichè presenta tutte le caratteristiche di un’edizione affrettata, condotta fino a un certo punto secondo un ordinamento prestabilito (che doveva essere quello impartito da Bagolino) e, dopo la morte dell’autore, continuata senza più alcun criterio direttivo. Si tratta di duecentosettantun componimenti di cui un buon terzo di genere sacro: e anche questa proporzione rispecchia fedelmente la volontà di Bagolino secondo le preoccupazioni di ordine prevalentemente religioso che caratterizzarono l’ultima stagione poetica.
Maggiore interesse dovevano riservare alcune opere perdute: soprattutto un Elogio di Francesco Ventimiglia, marchese di Geraci, e un “libro sopra lo reggimento che fe’ ‘l Ventimiglia in Sicilia” in cui lo scrittore si proponeva di esporre “i fatti e li detti, anzi tutta la vita di quel cavaliero, in quel modo ch’Antonio Panormita scrisse la vita di Alfonso d’Aragona”; una prosa latina sull’origine di casa Moncada e un libro di epigrammi latini sui maggiori personaggi di quella famiglia, dettati – secondo quanto riferisce Bagolino stesso – su incarico del principe due anni prima di morire (e “restati nella libreria di quel Signore”, esistevano ancora quando scriveva il Mongitore); un Opuslyricum ricordato in due lettere di Bagolino al Valguarnera; un Discorso historico sulla città di Alcamo, e un Epistolarum familiarium liber contenente lettere al cardinale Petrocchini (che prometteva gran gloria all’annunciata De Vita S. Sebastiani), a Paolo Portarelli, a Niccolò Buttafoco e a Filippo Paruta.
Molto si compiaceva Bagolino della versione degli Emblemas morales, perduta tranne pochi frammenti, a parte le polemiche che dovevano riflettersi in un libro De ratione Emblematum (sull’altra controversia che impegnò gli ultimi anni dello scrittore doveva far luce uno scritto contro Ambrogio Beneventano e forse certi Discorsi piacevoli citati dal Triolo).
Molti altri sono i lavori portati a termine del poeta alcamese che non solo risulta molto erudito nelle prose volgari, ma mostra anche un particolare merito nei carmi, specialmente in quelli di soggetto amoroso, molti dei quali per scioltezza di lingua e bellezza di immagini non hanno nulla da invidiare anche a personaggi più noti dell’età aurea della letteratura latina.