Di Antonino Messana
Con il francese Denon continuo il racconto del tour dei viaggiatori stranieri in Sicilia della fine del 1700. Leggere la Sicilia di Denon non solo ci colpisce e ci stupisce, ma sicuramente ci appassiona; anche se il campo di lettura, che in seguito riporto, è circoscritto alle strade. Mi ha colpito e stupito la grande cultura poliedrica sulla Sicilia. Non leggeremo solo storia, ma a tratti anche arte, archeologia, architettura, letteratura epica e mitologica, geologia, demografia, sociologia e forse c’è di più che non so esprimere. Verrà confermato passo per passo, tutto ciò che ho pubblicato fin dal gennaio dello scorso anno: come le conquiste e le grandi battaglie greche, romane (e relative strade da allora costruite), arabe, e normanne fino ad arrivare ai Borboni. Oltre ai sacrifici personali sofferti, verranno pure confermati le scarse, disagevoli, pericolose e paludose strade e i sentieri attraversati, la scarsa popolazione, le terre paludose e abbandonate, la miseria e povertà delle città visitate, l’aria malsana di vari paesi e città e infine, lo sfruttamento di re e monarchi. Non ho letto alcun cenno o riferimento alle Regie Trazzere o strade armentizie e ho trovato pochi cenni sulla pastorizia molto marginale e localizzata in qualche sparuto paese. Per altro verso, per la città di Agrigento, Denon evidenzia l’abbandono, quasi totale, degli allevamenti di cavalli.
Il nostro Autore ci fa rievocare tutto ciò che abbiamo appreso nelle pagine precedenti, dai nostri professori stradali, regolarmente citati in bibliografia, come Tesoriere, Giovanni Uggeri, Arcifa, Emanuele Vincenzo Sergio, Adolfo Holm, Marchese di Villabianca, Luigi Santagati, ecc., ecc. A differenza di questi autori i cui testi rappresentano opere scientifiche, Denon ci dà meravigliose prove, oculari e testimoniali come voce di popolo. Qui, mi vengono in mente due sentenze: “Voce di popolo, Voce di Dio” ( Vox populi, Vox Dei, credo che l’originale è questa frase latina); “dove c’è vista non occorrono altre prove”.
Introduco subito questo illustre autore, dopo una breve biografia e lascio ai lettori, come sempre, l’ardua sentenza.
DOMINIQUE-VIVANT DENON, (Chalon-sur-Saone [città della Borgogna] 1747-Parigi 1825) archeologo francese. Andò a Parigi a studiare diritto e, da giovane scrisse qualche opera teatrale. Luigi XV lo mise alla direzione del Cabinet des Medailles (Museo delle monete, medaglie e antichità della Biblioteca nazionale di Francia). In seguito ebbe incarichi diplomatici a Pietroburgo, in Svezia e in Svizzera. Passò successivamente sette anni all’ambasciata francese a Napoli e qui partecipò alla grande impresa del Voyage Historique à Naples et dans les Deux Siciles (Viaggio Storico di Napoli e intorno alle Due Sicilie) dell’Abate Saint-Non (1788). L’Abate lo scelse come delegato in Italia e lo incaricò di dirigere un gruppo di architetti, pittori e incisori che, sparsi nel Mezzogiorno, preparavano le illustrazioni per l’opera a cui collaborarono artisti celeberrimi come Hubert Robert, Vernet e Fragonard.
Lo scopo del viaggio progettato da Dominique-Vivant Denon e dagli artisti che l’accompagnavano aveva il fine di conoscere l’abbondante ricchezza delle antichità classiche e i fenomeni naturali della Sicilia. Sbarcati a Messina il 2 giugno 1778, raggiungono Taormina e Catania e da qui, muovendosi verso Nicolosi, si avventurano a scalare l’Etna. Poi proseguono per le città dell’entroterra quali Adrano, Enna, Leonforte, Termini e raggiungono Palermo il 2 luglio. A Palermo assistono ai festeggiamenti di Santa Rosalia soffermandosi per un intero mese. Dalla capitale si portano a Segesta, Erice, Trapani, Selinunte ed Agrigento. Il 4 settembre da Licata si imbarcano su una “speronara”(piccola imbarcazione Maltese con tutte le vele in poppa) per approdare a Malta, sede dell’Ordine dei Cavalieri. Qui, soggiornano fino al 17 settembre e rientrano in Sicilia approdando a Siracusa. Dopo la visita di Siracusa, raggiungono la Cava d’Ispica attraverso Avola, Noto, Rosolini (Via Elorina). La mappa sottostante mostra a chiare lettere l’intero percorso
Adesso, il viaggio volge al termine e ritornati a Messina, il 29 novembre 1778 lasciano la Sicilia, dopo sei mesi di perlustrazioni frenetiche e pure rischiose per la propria salute. Dell’intero viaggio di originale resta il meraviglioso libro pubblicato a Parigi nel 1788 Voyage in Sicile. L’opera ebbe grande successo in Europa, tanto che creò il cosiddetto Grand Tour in Italia. Il turismo in Sicilia si implementò anche e sempre più anche presso i giovani dell’aristocrazia europea, nasce il viaggio di diletto associato alle emozioni della scoperta di luoghi selvaggi in natura ed al piacere di ammirare l’arte.
Nel proseguo riporto alcuni pezzi originali del libro, in lingua francese, limitati alle strade percorse dai nostri personaggi, preceduti dalla traduzione tratta dal libro “Settecento Siciliano”, pubblicato solo nel 1979 dalla Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia ( dopo ben 191 anni dalla pubblicazione originale). Vergogna per l’Italia e la Sicilia) . Ecco la copertina originale del libro pubblicato a Parigi.
Inizio con Etna.
Uscii dunque da Catania il 22 giugno, alle otto del mattino. Un leggero vento di nord-est rendeva trasparente il pennacchio di fumo che si innalzava dal cratere della montagna, si stagliava sul cielo e, dondolando come un fanale di nave, si dissolveva lentamente nello spazio, a più di venti leghe sul mare. Camminavamo colmi di coraggio e di speranza. Tuttavia, appena avemmo percorso sei miglia, una piccola nuvola si formò perpendicolarmente al cratere. Questo punto immobile cominciò ad inquietarmi. Arrivammo a Nicolosi, grande e popoloso villaggio, ma che mi apparve misero per l’aspetto triste che presentano sempre le costruzioni in lava.
La zona che attraversammo tra Catania e Nicolosi, ricopre una estensione di dodici miglia e non mi apparve né così bella né così fertile come quella che avevo percorso nella stessa zona della montagna, partendo da Giarre. Non vi è più né quella abbondanza né quella ricchezza dell’età dell’oro che ricopre di fiori e frutta i terreni un tempo travolti dai cataclismi.
ENNA O CASTROGIOVANNI
Non lasciandoci la festività di Santa Rosalia a Palermo il tempo di visitare Siracusa, Malta e la costa del mezzogiorno prima del 10 luglio, data del suo inizio, cambiammo il nostro itinerario e decidemmo di vedere prima l’interno dell’isola, anche se questo era previsto solo per la fine del nostro giro. Lasciammo quindi Catania con il proposito di ritornarvi e ci dirigemmo verso Paternò, Centuripe, Castro Giovanni, Termini, Palermo. Le nostre guide che non conoscevano questo percorso e che, d’altra parte, sapevano che dovevamo separarci a Palermo, ci prevennero e ci lasciarono già a Catania. Le sostituimmo con altre più istruite. Prendemmo un sol cambiere (campiere) al posto di due. Era una sciocchezza in meno, anche se comunque una di troppo; perché queste persone hanno il prezzo di due cavalli e non offrono alcuna utilità: ma stavolta si trattò di un’imposizione, essendo costui ii proprietario dei cavalli, che ce li avrebbe rifiutati, se non a questa condizione. Uscimmo da Catania alle cinque del mattino; camminando tra le falde dell’Etna e la piana di Lentini, trovammo a sei miglia di distanza, nel piccolo paese di Misterbianco, costruito sulla lava.
Lasciammo Carcaci alla nostra destra e superammo un altro fiume che si ricongiunge con il Regalbuto, a poca distanza, al di sotto del ponte. Arrivammo dunque in una zona dove non si calpesta più la lava e dove si trovano invece altre qualità di pietre e procedemmo in senso opposto all’Etna.
Seguimmo il sentiero più pericoloso. Molto erto, per raggiungere Centorbi, l’antica città di Centuripae [Centumripae], menzionata da Cicerone nelle sue orazioni contro Verre. Questa città che si sviluppa su cinque estremità di roccia ha una pianta di stella marina. Nessuna città fu mai tanto scomoda da raggiungere e da abitare. Tuttavia all’epoca dei Romani fu assai popolosa: del suo antico splendore non resta ormai che qualche desolata rovina; i suoi vasti sobborghi che si estendevano fino alle suddette estremità sono oggi aridi e inabitati; la città è isolata, senza commercio (sans commerce), senza denaro (sans argent) e priva di strade (sans chemins)
Riscendemmo da Centuripe per una strada pericolosa quanto quella che avevamo seguito per nel salirvi. Attraversammo una vasta zona già arsa dal sole, senza alberi e dove la montagna, di cui in lontananza, si sorgono numerose cime sono in tutte simili alle onde del mare tempestoso. A nove miglia troviamo il meraviglioso paese di Regalbuto, posto in una collina, dell’aspetto assai pittoresco nella sua opulenza.
Attraverso le case, ci inerpicammo per sentieri tortuosi e scoscesi, che non si possono certamente chiamare strade, ma che fanno le veci, fino alla cima della montagna, dove non restano che estese mura di un castello, costruito dai Saraceni. Cercammo il tempio di Ercole ed il lago che egli fece scavare…
Gli chiesi la ragione dello spopolamento di Castrogiovanni che, pur godendo dell’aria più salubre possibile, nell’arco di un secolo, secondo il suo calcolo, aveva visto calare il numero dei suoi abitanti da settantamila a dodici mila; mi rispose che la causa era da addebitarsi ad una forma di scoraggiamento
Scendemmo per un viottolo che somiglia più ad un precipizio che ad una strada, in direzione di Calatascibetta [Calascibetta], borgo costruito su di una rocca, molto vicina a quella di Castrogiovanni, ma per la cui discesa e salita bisogna percorrere tre miglia. Calascibetta mi sembrò molto povera e desolata. Dopo aver attraversato il suo territorio, arrivammo in un deserto incolto dove vi è una montagna ricoperta da una magnifica coltre di polvere bianca; poi superammo un ruscello di acqua salmastra; trovammo in seguito un laghetto di acqua nera e salata ed ancora un’intera montagna di salgemma sfruttata allo scoperto come cava di pietra.
Alimena è un grosso paese, molto ben costruito e ancora nuovo, andammo come d’abitudine, a dormire nel convento dei Cappuccini, invero molto bello. Il chiosco, senza essere sontuoso, è tuttavia di uno stile gradevole. In questo paese vi è carenza di boschi che si è costretti ad accendere il forno con la paglia.
Ne partimmo prima dell’alba; benché fossimo al 2 luglio e al trentottesimo grado di latitudine, vi soffrimmo il freddo al punto da lagnarsene. Attraversammo nuovamente una desolata zona desertica, dove solo la storia naturale e lo studio delle ricchezze del sottosuolo potrebbero ripagarci della monotonia che presenta la superficie coperta soltanto di cardi e da una selvaggia cotica erbosa (insieme di erbe graminacee che formano un tappeto). Pensai di individuarvi una grande varietà nella qualità della terra e nell’essenza stessa di alcuni minerali e di diversi marmi. Percorremmo diciotto miglia senza incontrare una casa né un paesaggio accettabile fino a Calatavuturo [Caltavuturo] dove la natura diventa tanto fertile e rigogliosa quanto finora era stata uggiosa (fastidiosa e umida).
Caltavuturo non ha altro merito che il suo aspetto imponente, perché per il resto è solo un povero villaggio. Ne uscimmo e percorremmo le diciotto miglia necessarie per raggiungere Termini e concludere la traversata dei monti Nebrodi. Allo sbocco di disagevoli vallate, le montagne improvvisamente sembrano aprirsi, la valle pianificarsi ed ampliarsi, conducendo al mare per un pendio quasi impercettibile.
Lasciammo Termini al sorgere del sole e ci incamminammo seguendo la strada più bella del mondo (forse era la Regia Trazzera larga metri 38 o era la Valeria larga palmi 40, cioè m. 10,32?), fino a Bagaria [Bagheria], borgo che dista quattordici miglia da Termini.
(Da Bagheria) Abbandonando al più presto questa disgustosa collezione, partimmo per Palermo, distante otto miglia. Dove si giunge per una larga strada coperta di sabbia, come il viale di un giardino (questo tratto di larga strada, decisamente. non poteva essere una Regia Trazzera perché le greggi nella sabbia non pascolano e neanche boccheggiano).
Vi arriviamo il 2 luglio, dieci giorni prima della festività di S. Rosalia, donna dell’antica Palermo il cui corpo è stato ritrovato sepolto in una grotta del monte Pellegrino, tra le sepolture e le gigantesche ossa dei Saraceni interrati nello stesso luogo.
Avevo con me numerose lettere di raccomandazione, ma in un sol giorno appresi che una soltanto serviva per ottenere dai Palermitani tutto quello che uno straniero possa desiderare dalla società. Ero raccomandato al Principe di “Pietre Percia” [Petraperzia] che volle, anzi pretese che la sua casa fosse la mia.
Finiti i festeggiamenti, visitammo i dintorni di Palermo. Andammo al Monastero di San Martino, dell’ordine di San Benedetto. Questo convento eretto tra le montagne, somiglia ad una certosa in un deserto; è situato, invece, a otto miglia da Palermo e vi si giunge per una bellissima strada.
Dopo aver cenato molto piacevolmente a San Martino, discendemmo per una strada disagevole, a Montereale [Monreale], piccola città incantevolmente situata a tre miglia da Palermo.
Lungo la bella strada che conduce da Monreale a Palermo e che fu costruita con i soldi dell’ultimo vescovo si trova, rifinito con maggiori spese che con l’intelligenza e buon gusto, un antico castello che funge oggi da caserma per un reggimento di cavalleria; si dice che sia stato costruito dai Saraceni e comunichi, attraverso un sotterraneo, con un altro di maggiore importanza e dello stesso tipo, chiamato Castel Reale ed anticamente “Izza” [Zisa] (in lingua saracena, casa di campagna)
Ritornammo, in compagnia con il principe”Pietre Percia” [di Pietraperzia] a Bagheria, feudo del suo casato ed andammo poi da là a vedere le rovine di “Solentum” [Solunto] antichissima città a me; sembra che i Fenici ne frequentassero il porto che, divenne in seguito, possesso dei Cartaginesi, dal momento e fintanto che occuparono la Sicilia,
I Siciliani, lontani dal loro re, che non conoscono se non attraverso un suo rappresentante, si abituano a considerarlo come un pensionato di cui frodano i diritti, si inorgogliscono di offrirgli dei doni gratuiti ed al quale, ogni tanto, tentano di disubbidire, nel solo intento di compiere un gesto di libertà. I Siciliani hanno avuto tanti sovrani, e si sono abituati a non amarne nessuno ed a preferire solo quello dalla cui debolezza possono trarre il maggior profitto: sono sempre pronti ad accogliere un nuovo sovrano che s’imponga con la forza, oppure quello che offra loro delle condizioni migliori; ma liberi di ricorrere, in caso di violenza e di tirannia, ai noti sistemi di rivolta, dei vespri siciliani o di altri consimili. Poiché il paese offre abbondanza di ogni specie di prodotti, essi sono più difficili da asservire di qualsiasi altro popolo, perché non è possibile costringerli tramite delle privazioni. Si può spogliarli, ma mai rovinarli e infatti un cattivo governo può impoverirli, ma non farli morire di fame.
Nel trattare le Regie Trazzere di Sicilia che, fin dalle prime pagine di questo studio ci risultano inesistenti, il brano che abbiamo, appena, letto, a mio giudizio, resta attuale. Infatti, i siciliani, cacciati i Re, accettano la Repubblica ed un Governo regionale che frodano, ancora, i diritti dei proprietari e di coloro i quali hanno acquistato in buona fede terreni agricoli. Come abbiamo più volte ripetuto nel corso di questa rubrica, a partire dagli anni ’50 l’Ufficio Trazzere ha tracciato le Regie Trazzere utilizzando le strade delle mappe catastali del 1938, così le ha allargate a circa 38 metri, ricavando in tutta la Sicilia 11.500 Km. di Trazzere Regie.
Molti siciliani hanno pagato ed ancora pagano tratti di terreni prospicenti le suddette Trazzere disegnate illegittimamente. Dopo quasi 18 mesi di continue pubblicazioni di questo giornale, solamente la regione Sicilia ed i suoi politici fanno gli gnorri, compresi i deputati alcamesi che penso abbiano scorso le pagine di questa rubrica. E’, infine, notorio che qualsiasi Consigliere regionale oltre a presentare un progetto di legge, può fare interpellanze, interrogazioni e mozioni presso l’Assemblea. L’iniziativa legislativa spetta anche ai Comuni e cioè, ad almeno 40 Consigli comunali, che rappresentano almeno il10% della popolazione (articolo 12 dello Statuto della regione Sicilia).
Ritorno al racconto. Di là, abbandonando il mare, arrivammo a Carini, grosso borgo di settemila abitanti, a diciotto miglia da Palermo, costruito nel fondo di un fertile vallone…
Si dice che esistono alcune tracce delle mura ed alcune condotte d’acqua dell’antica città di Hiccara; ma nulla ho potuto riconoscere se non dei frammenti di mattone sparsi che indicano l’antica posizione della città.
Ripartendo da Carini attraversai, seguendo il mare per trenta miglia, un paesaggio assai bello, bagnato da tre piccoli fiumi, il S: Cataldo, il Calattano (Calatubo), ed il S. Bartolomeo; quest’ultimo il più importante dei tre, viene a gettarsi nel mare presso “Castel-a-mare”[Castellammare], l’antica marina di Segesta che è situata in modo particolarmente vantaggioso, all’angolo del golfo, sotto il monte Inici.
La posizione di questo Castellammare somiglia molto a quella di Castellammare vicino Napoli; gode delle stesse ombre e dello stesso riparo; e la costa del capo di S. Vito pare essere quella di Sorrento del capo Minerva. Questo è, tuttavia, molto inferiore all’altro per il pittoresco e la ricchezza del paese.
C’è solo un brutto castello e nient’altro da vedere,…
Qui manca Alcamo. E’ chiaro che da Calatubo, i nostri viaggiatori, hanno percorso la via costiera, da Balestrate e attraversano Alcamo Marina per andare a Castellammare.
Poiché dormimmo sul pavimento, non avemmo difficoltà alcuna a partire di buon ora,
Calatafimi non si trova in una posizione più felice della città antica; a cavallo sulla cresta di due valloni, all’esterno somigli un poco a Centorbi.
Di gran mattino partimmo da Calatafimi. Attraverso un paesaggio molto triste fino in prossimità del Monte Erice, oggi S. Giuliano, di fianco al quale si passa e da dove si ha la veduta di Trapani e delle isole. Vi arrivammo per cena, dopo aver percorso ventiquattro miglia in una sola tirata.
(Le lendemain) L’indomani del mio arrivo, uscii all’alba per percorrere la spiaggia. Calpestai con passione quegli stessi luoghi dove Enea era sbarcato in Sicilia, dove suo padre Anchise era morto.
Ecco dove era la tomba di Anchise ed il bosco sacro piantato in suo onore. A Trapani, tuttavia, non resta nulla che somigli a questo bosco sacro, poiché non c’è niente di più arido e di maggiormente esposto nel territorio di questa città
Il secondo giorno salimmo sul celebre monte Erice, dove si trovava quel tempio di Venere, costruito da Erix, figlio di Butes e di questa dea; tempio che divenne famoso quando Venere ne assunse il soprannome di Ericina.
Ritrovai, effettivamente il cammino tortuoso e scosceso di cui parla Livio, che rendeva l’avvicinarsi alla città tanto difficile, ma non ho affatto trovato la città, come lui la indica, come lui la indica, a metà costa della montagna, né ho visto alcuna possibilità che vi sia mai esistita.
Partimmo da Trapani con dei Cavalli freschi e dopo aver eliminato tutte le guardie inutili e questo seguito fastidioso che non serve che a far pagare molto più caro tutte le cose che vi procura. Da Trapani a Marsala il paese diventa più piatto, le montagne si allontanano, le rive del mare sono quasi interamente ricoperte di saline.
Marsala era un tempo l’antica Lilibeo, il più importante insediamento dei Cartaginesi in Sicilia; fu l’unica che non fu mai conquistata, la sola che resistesse a Pirro, allorché passò in Sicilia nell’anno di Roma 475 e che i Romani assediarono per cinque anni senza potersene impadronire,…
Fu la bellezza di questo porto a farlo battezzare Marsala dai Saraceni, che, nella loro lingua, vuol dire Porto di Dio. Ma di questo famoso porto e di questa città inespugnabile, non si può oggi nemmeno tracciare un disegno. Niente è meno pittoresco e sembra meno imponente della moderna Lilibeo, eppure ancora recentemente, vi sono stati ricostruiti dei bastioni. Benché sia una grande città, non lo dimostra: conta venticinquemila abitanti e le sue strade appaiono spopolate.
Partimmo da Marsala per andare a Mazara che si trova a quattordici miglia da lì, seguendo la costa, attraverso una regione arida e piatta come la Puglia.
A Mazara si trovano alcune monete puniche, molte romane e, nelle loro tombe, quelle dei Saraceni. A Mazara si contano soltanto settemila abitanti senza commercio e senza occupazione.
Ci rimettemmo in cammino per raggiungere le rovine di Selinunte, chiamate i Pileri, a diciotto miglia da Mazara. Da questa città, fino al villaggio di Campo-Bello, la regione è deserta, come se fosse un paese ancora da scoprire: la terra non è coperta che da piccole palme nane, chiamate palme a ventaglio che sono usate generalmente per farne delle scope.
A due miglia da Selinunte, si scorgono le rovine di questa città che rassomigliano a due vasti cantieri dove siano esposti tutti i materiali atti a costruirne una. Da vicino conserva la stessa illusione. Al primo colpo d’occhio non si distingue alcuna pianta;
Infine, dopo aver esaurito tutta la regione, a metà notte partimmo da Selinunte, morti di fame. Passammo attraverso due piccoli boschi, poi attraversammo su di un ponte il fiume Bilici [Belice], anticamente fiume “Hypsa” [Hypsas], dove incontrammo l’aria malsana con un fetore terribile, poi due ruscelli senza ponti. Lasciammo a sinistra”Menfrici” [Menfri], poi oltrepassammo un altro fiume denominato “Corbo” [Carbo], anticamente Atys. Infine, dopo aver percorso diciotto miglia, sia sulla buona strada, sia persi a causa della notte e delle guide inesperte, al mattino arrivammo a Sciacca, città situata sul pendio di un’altura, dall’aspetto estremamente gradevole, ma il cui interno non corrisponde affatto a quanto promette. Anticamente veniva chiamata “Therme Selinuntiae e non ha conservato alcuna antichità.
Ritornammo a Sciacca da dove partimmo l’indomani e, seguendo il mare, ritrovammo sempre la stessa natura di roccia bruciata, bianca e salata. Passammo alla fece di Caltabellotta, anticamente Crimisus, d cui le acque si ripartiscono per inondare delle belle risiere che trovammo in fiore. Avviene lo stesso per Macasoli, anticamente “Allaba” e per Platani una volta Camicus, che si getta nel mare vicini a Capo-Bianco, chiamato certamente così per il suo colore.
Andammo a cenare a Monte Allegro, villaggio povero, situato su una roccia circondata da altre rocce aride, tutte di talco, da cui si produce la sabbia, la calce, le pietre e il gesso per la costruzione di case. Da Sciacca a Monte Allegro ci sono venticinque miglia. Ce ne restavano ancora diciotto per arrivare a Girgenti, ma perché ci dissero che Siculiana era situata in aria malsana, decidemmo di spingerci fino ad Girgenti, qualunque ora fosse.
Traversammo effettivamente un paesaggio molto selvaggio, delle vallate deserte, attraversate da ruscelli e da laghi di acque fedite, con la medesima natura del terreno e della pietra, cioè alternativamente di talco e pietra bruciata e salina, che esiste da Sciacca fino alla marina di Girgenti e oltre. Non appena avemmo superato il grosso borgo di Siculiana, il paesaggio divenne più bello e più ricco, ma la notte lo nascose alla nostra vista.
Arrivammo al molo di Girgenti a notte fonda. Vi si sale per una strada abbastanza bella, che passa tra il monte Tauro, a sinistra, dove erano accampati i Cartagine all’epoca del secondo assedio di Agrigento, ed il campo dei Romani, a destra, che ha conservato il nome dal campo dei Romani, durante lo stesso assedio. Attraversammo il fiume Agragas su di un grande ponte ed arrivammo a Girgenti per la medesima strada scoscesa e totuosa che Dedalo aveva costruito così artisticamente per rendere inespugnabile la cittadella di Cocalos, potendo due soli soldati impedirne l’accesso ad una armata intera. Questa strada e la porta sono state allargate da soli venticinque anni. Si notano tutt’ora le tracce della vecchia strada e la rupe così com’era. Erano le undici di sera
e non trovammo più gli emissari di Gellias (ricco Signore agrigentino che inviava il suo personale ad attendere i viaggiatori presso le porte, per condurli ed ospitarli alla propria casa) per condurci al palazzo del loro padrone. Facemmo quel giorno una triste esperienza dell’ospitalità agrigentina: dopo aver passeggiato i nostri cavalli, ormai sfiancati, per le pericolose strade della città, dopo aver subito il rifiuto del personale del nostro console, che non vollero venire a parlarci attraverso la porta, fummo obbligati a tornare nei sobborghi dove, dopo aver bussato a tutte le taverne che non ne volevano sapere di noi, trovammo infine riparo in un granaio e non potemmo procurarci che un mellone d’acqua per cena e del grano per coricarci.
Percorremmo la montuosa città di Girgenti, senza trovare nulla che valesse la pena di essere citato. La sua posizione attuale su di una montagna ne rende quasi impraticabili le strade non solo per le carrozze, ma anche per muli. La città moderna occupa solamente il terreno della cittadella dell’antica Agrigento. Non resta più niente di questa cittadella, costruita prima da Dedalo per sistemarvi i tesori di Cocalos, re dei Sicani, uno dei primi popoli conosciuti in Sicilia. A mezzogiorno di questa cittadella, sul pendio del monte Camico, sorse anticamente la più importante città di Cacolos che, in seguito, divenne un quartiere di quella di Agrigento, fu congiunta alle mura della grande città da un ponte sul fiume Acragas, e divenne un rione che serviva da comunicazione coperta per andare dalla cittadella alla quale era unita da un altro percorso coperto.
Proprio di fronte a quest’angolo, a ponente, era situato il Campo Romano, chiamato tutt’ora così, tra il Monte Tauro e la città, sull’antica strada di Eraclea. In questa parte ponente, le mura assumevano una forma irregolare e seguivano le sinuosità del fiume. Se ne vedono ancora chiaramente le rovine. Erano, alternativamente, opera d’arte ed opera della natura. All’interno di questa parte della muraglia, si innalzava un monticello chiamato la Meta, nome che si crede gli sia stato conservato dal suo antico uso, perché si presume che questo luogo fosse quello di alcuni giochi ginnici, quali la corsa dei cavalli e dei carri. Dietro questo monticello c’era un profondo burrone, chiuso da una grande muraglia, di cui esiste la base. Più lontano c’è un altro angolo
dove il muro volge ad oriente, seguendo il burrone, denominato oggi il vallone di S. Leonardo. In questo angolo c’era un gran ponte di cui si vedono ancora le prime assise dei contraffattori della volta, o dei pilastri che sostenevano le parti in legno, se il ponte era di legno o le assise della nascita della volta, se era in pietra. Questo ponte metteva in comunicazione la grande Città Agrigentina che era anch’essa chiusa da mura e comunicava essa stessa con la cittadella. Seguendo le mura, lungo il burrone di S. Leonardo, arrivammo ad una delle antiche porte, dove si segue ancora per un buon tratto la strada antica intagliata nel tufo, che è la pietra naturale di tutto il paese (quest’ultimo argomento sulle strade intagliate nel tufo è stato anticipato nel capitolo I-parte II pubblicato il 30 maggio 2015); concrezione marina, mista a conchiglie di ogni superficie conservate nella loro incrostazione. La strada era molto stretta, perché non superava i sette o otto piedi di larghezza. Qui lasciammo l’antica città e ci trovammo evidentemente fuori delle mura per la quantità di sepolture che notammo nei pressi della strada, tagliate nel tufo raso terra e sistemate, come a Solunto, a quattro pollice le une dalle altre.
L’indomani ci rimetteremmo in cammino per finire di vedere la circonvallazione della città, osservare il corso dei suoi fiumi e la posizione degli antichi sobborghi. Ritornammo ai piedi della montagna dei Francescani dove le mura, dopo aver seguito l’Acragas, attraversavano la valle di S. Leonardo e si estendevano fino al monte Agrigentino, al posto dove terminava la “Rupe Ahtenea”[Rupe Atenea] che chiudevano nella loro circonvallazione. Questa roccia, tagliata a picco nella sua parte nord, formava per la città, da questa parte, un baluardo inattaccabile; c’è da supporre che questa fu che la fece includere nel suo recinto, la parte meno scoscesa che guardava la città lo era tuttavia troppo per essere mai stata abitata.
Queste cave offrono di particolare e d’interessante solo la loro grandezza; il loro fondo è coltivato e forma, adesso, un vasto recinto, come la piscina. Accanto alla fattoria ci sono due locali tagliati nella roccia che possono benissimo essere usati due serbatoi d’acqua.
Di là una strada a mezza costa, tagliata nella roccia conduceva al tempio di Cerere e Proserpina (in nota a pag. 289 leggiamo: “Ancora oggi si accede, per una via antica solcata di carraie, a una terrazza sulla parte meridionale della Rupe Atenea ove sorge la piccola chiesa di S. Biagio…). Si può credere che questa strada sia antica, poiché, non è potuta essere di alcun uso dopo la distruzione di questo edificio. Vi si notano le tracce delle ruote dei carri che, apparentemente, avevano trasportato i materiali con i quali fu costruito. La strada è molto stretta, ma non ha niente di straordinario.
Attraversando Neapolis, dirigemmo i nostri passi verso il fiume Hypsas. Trovammo sul nostro cammino soltanto alcune pietre squadrate, qualche tratto di mura, dei piccoli edifici, e delle sepolture. Questo grande sobborgo, che occupa un’ampia vallata, aveva anche intorno una recinzione naturale; si tratta di una circonvallazione che si era ultimata con alzata di una debole muraglia di cui si vedono tutt’ora le vestigia quando, facendo il giro, ci si trovava dall’altra parte della valle. Questa parte e le rocce che si trovavano dirimpetto sono ricoperte di sepolture scavate in riquadri nella roccia medesima. Esse sono talmente numerose che la montagna stessa sembra essere un mucchio di sarcofagi e non vi è roccia che si sia staccata o che sia rotolata via, che non ne contenga due o tre. Attraversammo questa piccola dei monti, parallela a quella di Neapolis, ci avvicinammo alla città giungendo di fronte alla porta di Gela. Era allora il quartiere di una parte dell’accampamento di Imilcome, all’epoca del primo assedio dei Cartaginesi, se parato dalla città dal Ruscello.
Ritornai dopo al molo dove visitai i più bei depositi del Caricatoio, i più ricchi della Sicilia, formati da cantine o cisterne tagliate nella roccia, dove il grano si conserva in modo perfetto. Questa roccia è la stessa o quasi la stessa che ho descritto sotto la voce Sciacca; non è per niente soggetta ad umidità o a fermentazione. Le particelle saline e nitrose che contiene conservano il grano che esce da queste cisterne di una qualità superiore a quello che vi è stato messo (“Crescimonia”. Argomento affrontato in sintesi e con mappa dei Caricatori di Sicilia, tra le note, nel Cap.I-Parte VII, pubblicato il 31 ottobre 2015). Questi magazzini appartengono al re ed assicurano la sussistenza dell’isola. I mercanti stranieri vengono a caricare l’eccedenza di cui è autorizzata l’esportazione, dopo che si è fatta la riserva di cinquantamila salme per la semina della regione e l’approvvigionamento dei magazzini della città.
A giudicare dell’antica popolazione di Agrigento per l’estensione della sua cinta e dei suoi sobborghi, si può far fede al censimento riportato dal celebre Empedocle, cittadino di questa città, che la fa salire fino ad ottocentomila abitanti. Adesso calcolando la città propriamente detta che era costruita dall’antico castello, dal sobborgo Camico e da quello che hanno fatto costruire Enrico e Costanza nel dodicesimo secolo, essa è ridotta a quindicimila persone, per la maggior parte piuttosto povere, tristi ed alquanto scontrose. Cercavo con gli occhi alcune tracce della bellezza che rendeva le Agrigentine tanto famose, non vidi una sola bella donna e non potetti parlare a nessuna di loro: cosa che non mi era ancora mai accaduta in Sicilia, neanche nei luoghi dove mi ero fermato di meno; tuttavia, restai diciotto giorni ad Agrigento. La razza dei cavalli si è altrettanto degenerata: niente cavalleria leggera, niente più stazioni di monta e, a dir il vero, non esistono più cavalli agrigentini. La nobiltà è particolarmente povera e vive in modo riservato. I commercianti, molto presi dai loro affari, non si incontrano che in piazza; senza vita di società, senza piaceri, la gente è cupa e devota e ne ha l’aspetto.
Partimmo da Girgenti al mattino, il primo settembre; uscimmo dalle mura dell’antica città per la porta di Gela, lasciammo sulla nostra sinistra il sobborgo di Neapolis ed arrivammo sulle rive del fiume Hypsas, dove i Cartaginesi furono battuti dai soccorsi che Gela inviava agli Agrigentini all’epoca del primo assedio posto da Imilcone; combattimento cui poterono assistere gli Agrigentini sopra le loro mura, come lo narra la storia, e non, come molti pretendono, dalle rive dell’Himera che è situato a ventisei di là, e che non può essere scorto da Agrigento, malgrado la sua posizione elevata. Diversi geografi hanno situato Agrigento su questo fiume, ma questo errore è talmente sensibile ed evidente che non vale la pena di smentirlo. Camminando in un ampio vallone per dodici miglia e trovammo sulla destra le solfatare di Palma, zolfo la cui estrazione è la più semplice possibile
[A Palma] Ci fermammo solo il tempo necessario per cenare. Palma conta all’incirca otto mila abitanti.
ALICATA
Il paesaggio continua a presentarsi ricco dei medesimi prodotti, cioè di vigne, di grani e di alberi da frutto; si esce dalle valle di Palma solo per scoprire l’ampia pianura bagnata da fiume” Himera”, oggi chiamato Salso e, al di là, i celebri campi di Gela. Alla fine di una catena di montagne, in riva al mare, da questa parte del fiume, è costruita Licata o Alicata, che sostiene di essere l’antica città di Gela, ciò che lo contende con Terranova, senza avere, pertanto, dei diritti fondati. Virgilio, poeta che, in materia di geografia, bisogna citare come lo storico degno di fede, ci dice:
VIRGILIO AENAID. LIB. III.-APPARE DA LONTANO CAMERINA E I CAMPI GELOI, E L’IMMAGINE GELA DENOMINATA DAL FIUME (omonimo). Traduzione Prof. Carlo Cataldo di Alcamo.
La popolazione di Alicata è composta di diecimila persone che godono dell’agiatezza che offre loro un ricco territorio ed un eccellente produzione di grano e frutta. Il suo commercio è quello del grano e degli approvvigionamenti per Malta di cui rappresenta il deposito ed il porto per l’esportazione dove si spediscono tutti i commestibili che la Sicilia fornisce a questa isola vicina.
Non vi era alcuna esperonata ad Alicata: mandammo a cercare un a Terra Nuova, ma dovemmo attendere tre giorni. Perciò partimmo soltanto il 4 settembre, sul far della notte.
RITORNO IN SICILIA DA MALTA, DIRETTI A SIRACUSA IL 17 SETTEMBRE ALLE ORE 5 POMERIDIANE
DA SIRACUSA A ISPICA
Tutti mi parlavano bene delle cave di Ispica e nessuno mi diceva mai di averle viste.
Benché sovente ingannato in materia di grotte, non so quale ispirazione venne a tormentare la mia curiosità. Il timore di aver poi dei rimorsi mi fece alla svelta partire un mattino con i miei compagni. Attraversammo la piana di Siracusa che produce attualmente grandi quantità di vini e che è piantata ad olivi antichi quanto l’antica città. In seguito trovammo una campagna pietrosa fino in prossimità del fiume Casibile [Cassibile], che scorre in una piccola valle e la rende fertile. A poca distanza dal mare, su di una piccola altura, c’è una brutta masseria, dove alcuni anni fa, si scoprirono le rovine di una casa di campagna; si scavò e furono ritrovati una figura intera di marmo ed un bel busto che il conte Gaetano [Gaetani]mandò al re di Napoli.
Percorsi tutta la campagna per cercare la via Helorina, che però non riuscii a trovare (riguardo la Via Elorina il lettore può rivisitare il Cap. I-parte VII pubblicato il 25 ottobre 2015; sull’abbandono delle strade romane il Cap. I-parte IV pubblicato il 25 luglio 2015, provato dal manoscritto del Marchese di Villabianca).
Andammo poi ad Avola, situata ad un miglio di distanza, e a sedici di Siracusa.
Cenammo e partimmo per Noto, che si trova a solo sei miglia da Avola su un territorio ricco e ricoperto di alberi. L’antica Noto, capitale della zona che porta questo nome, era costruita a sei miglia dalla nuova, sulla cima di un’arida montagna, ciò che rendeva l’arrivarci penoso e la posizione sgradevole.
ISPICA
Nel mezzo di questa vasta distesa che somiglia ad una pianura uniforme, venendo tutto ad un tratto a mancare il terreno, si scopre una vallata profonda, tortuosa, così ricca, tanto abbondante di prodotti quanto il resto è arido. Discendemmo un sentiero rischioso, lungo la roccia a picco che fiancheggia questa vallata, il fondo della quale è cento piedi più basso.
RITORNO A SIRACUSA
Montai a cavallo con la febbre e un dolore alle ossa, come se avessi la gotta. Ci incamminammo dalla parte del mare e scendemmo nel ricco vallone, dove scorre il fiume Eloro che lo bagna nell’estate e l’inonda nell’inverno, facendone una delle campagne più fertili della Sicilia; vi trovai l’abituale verità delle descrizioni geografiche di Virgilio.
CARLENTINI
a Carlentini, città costruita da Carlo V che volle farne un quartiere generale delle truppe di Sicilia. Questo progetto, però è rimasto fermo alle mura. Le case sono talmente basse che le strade somigliano tuttora ad un accampamento: tremila abitanti vivono in notevole miseria.
LENTINI
Antica, grande, ricca e celebre città, fondata dai Calcidesi al tempo stesso di Catania. Questa città, rivale di Siracusa, è ormai ridotta a quattromila cittadini che abitano su di una piccolissima parte delle rovine dell’antica città. L’aria malsana che si respira tutt’intorno impedisce alla popolazione di accrescersi, malgrado che il territorio abbondi di ogni genere di prodotti.
CATANIA
Dopo aver percorso diciotto miglia da Lentini, arrivammo a Catania, dove non trovai più l’amabile e dotto canonico Recupero che era morto durante la mia assenza.
DA CATANIA A MESSINA-FINE DEL VIAGGO 29 NOVEMBRE 1778
Mi imbarcai per Tropea…qui termina il giornale di M. de Non, riguardo la Sicilia.
Bibliografia: Dominique Vivant Denon- Settecento siciliano. Custodito dalla Biblioteca centrale della Regione Sicilia “A. Bombace”-Palermo-codice identificativo PAL 0035839.
La prossima puntata sarà centrata sul viaggio in Sicilia Wolfgang Geothe 1787 e verrà pubblicata Sabato 25 Giugno 2016.