Quelle simpatiche canaglie

I risvolti del blitz antimafia Visir e il latitante Matteo Messina Denaro che continua a sfuggire alla cattura

E, sì. Siamo alle solite. Non appena si alza il coperchio di una pentola piena di malaffare mafioso subito, si scatena la canea di chi dice si è mafia, anzi forse no, anzi forse sono dei poveracci che cercavano solo lavoro per loro o per propri amici o ancora erano solo dei portatori d’acqua per far assegnare a certi amici le forniture. Ecco, proviamo a dar ragione a simili ragionamenti e non c’è dubbio ci troveremmo a dovere per forza identificare i 14 arrestati dell’operazione Visir di ieri  a delle “simpatiche canaglie”, sovrapponiamoli così a quella banda di ragazzini protagonisti di una divertente serie televisiva dei tempi andati che se la spassavano facendo dispetti in giro per la città. Loro però, le simpatiche canaglie televisive, non avevano a disposizione  armi e fucili a canne mozze come gli arrestati di ieri, che a loro modo si divertivano a provare a momenti pure sulla pubblica piazza, senza ritegno e paure. Allora attenti, diciamo le cose come stanno. Diamo atto agli investigatori dei carabinieri e del Ros, agli investigatori dei colonnelli Pugnetti e Russo, del tenente colonello Arcidiacono e del maggiore Merola, che hanno tanto lavorato, di avere raccolto dati precisi. Gli arrestati non sembrano essere per nulla delle simpatiche canaglie, tutt’altro, qualcuno di loro ha i galloni di pregiudicato mafioso che come ben sappiamo nell’organizzazione mafiosa contano parecchio. Di altri, le intercettazioni tradiscono spavalderia e arroganza dal tratto tipicamente mafioso, la richiesta estorsiva fatta con tratto, apparentemente , benevolo, “ci vuole il contributo per il paese”, la minaccia posta con tanto di pacca sulla spalla, “ancora non è morto il tuo capo?”, frase che indubbiamente può far solo gelare il sangue. Frasi del genere sono tutte raccolte nel provvedimento di fermo giudiziario eseguito nei confronti dei 14 arrestati dell’operazione Visir, firmato dai pm della Dda Marzella, Di Leo e Padova e che entro i prossimi 5 giorni andrà all’esame del gip che dovrà o meno confermarlo e se lo conferma dovrà decidere anche quale misura cautelare applicare ad ognuno dei fermati che per il momento si trovano nella patria galera del carcere di Trapani. Il dato consegnato è quello di una mafia che indubbiamente è in difficoltà, decimata da arresti e confische, ma che non demorde, al punto tale da andare a chiedere il pizzo a un imprenditore, Francesco Billeci di Partinico, sebbene questi fosse già all’epoca presidente dell’associazione antiracket della sua città, associato alla rete di Libero Futuro. Può anche darsi che al primo approccio la circostanza che Billeci era presidente dell’antiracket,  fosse sconosciuta, ma quando la cosa diventa nota i mafiosi , come testimonia un’intercettazione, non demordono. Billeci è tra i pochi che hanno scelto di denunciare come evidenzia un comunicato di Libero Futuro: “Cosa nostra ha subito l’ennesimo duro colpo da parte delle Forze dell’ordine e della Dda di Palermo. L’indagine che porta fino a Messina Denaro è scaturita anche dalla denuncia che il presidente dell’associazione antiracket di Partinico Francesco Billeci fece nel lontano 2014 accompagnato alla Squadra Mobile di Trapani da Enrico Colajanni di Libero FUTURO. Ci sembrava che si fossero perse le tracce di quella denuncia, dice Billeci, ma adesso capiamo che c’era un’indagine più importante che ha richiesto ai Carabinieri tempi lunghi per definirsi.Ci auguriamo che il numero degli imprenditori disposti a denunciare aumenti anche in provincia di Trapani  – dice Nicola Clemenza di Libero FUTURO Castelvetrano, imprenditore che subì una feroce intimidazione ordinata da Messina Denaro – perché noi siamo pronti a consigliarli e assisterli. Non bastano le operazioni pur efficaci delle Forze dell’Ordine per sradicare il cancro mafioso. Ci vuole, anche, una rivolta sociale collettiva e soprattutto servono le denunce pronte e convinte dei tanti imprenditori che ancora subiscono in silenzio le imposizioni dalle cosche” . Una mafia che persiste nel controllare senza mancare un colpo, l’esecuzione di appalti pubblici, esempio il nuovo porto di Castellammare del Golfo o il rifacimento di Piazza Matteotti a Marsala, ma che per far fronte alla crisi degli appalti pubblici si è gettata a capofitto anche sui lavori di edilizia privata. Il racket è il solito 3 per cento sull’appalto o ancora l’assunzione di manovalanza o ancora l’imposizione delle forniture, l’intenzione più volte colta dai carabinieri è di quelle indiscutibili, le “simpatiche canaglie” sono state ascoltate mentre ragionavano su come ottenere i lavori, “la dobbiamo finire con queste cose e i lavori nel nostro paese li dobbiamo fare noi”. L’appalto è stato assegnato a un’impresa non locale, la regola, mafiosa, vuole che l’impresa oneri la messa a posto, il pagamento del dazio mafioso, e che poi manovalanza e forniture siano del posto. Una mafia che continua a rispettare le regole imposte dalla commissione regionale di Cosa nostra, rispettando le dinamiche interprovinciali, che è capace di essere violenta, quando è il caso. E a Marsala c’erano giorni violenti pronti a esplodere, risolti con la minaccia arrivata dal latitante Matteo Messina Denaro, pronto a fare da paciere ma pare pronto a ricorrere lui alle armi se il suo volere non fosse stato rispettato. I carabinieri e la magistratura palermitana hanno preferito agire contro ogni eventuale evenienza delittuosa, eseguendo i fermi e sorpassando per adesso la decisione del gip che comunque a giorni sarà presa sulla convalida dei fermi. I “picciotti” marsalesi sono tra quelli lesti a sparare, la polveriera usata per la guerra di mafia degli anni ’90 è rimasta nascosta, e in questi anni qualche delitto è stato commesso, come quello di Baldassare Marino che oggi si è scoperto far parte della cosca, avevamo percepito bene quando indicammo per quel delitto la matrice mafiosa. Matteo Messina Denaro tra il 2014 e il 2015 si nascondeva a Marsala? Secondo le intercettazioni pare proprio di sì, con buona pace di chi ritiene che le cose dette non sono state queste. Il comunicato stampa dei carabinieri afferma quanto segue: “rilevanti e inediti sono gli elementi in ordine alla  costante operatività e periodica presenza, in territorio trapanese, del latitante…l’aggregato criminale lilibetano, capeggiato da Vito Vincenzo Rallo e caratterizzato da pericolose conflittualità interne tra gli affiliati, veniva sostanzialmente pacificato dall’intervento del latitante; nel gennaio 2015 Matteo Messina Denaro, attraverso gli ordini comunicati ai sodali da Nicolò Sfraga (capo decina marsalese e luogotenente di Rallo) e rivelando di fatto la propria presenza nell’area trapanese, minacciava di essere pronto a risolvere manu militari eventuali inosservanze ed inadempienze dei locali uomini d’onore…in tale ambito si acquisivano, infatti, risultanze di assoluto rilievo in ordine all’allora attuale presenza nel territorio trapanese del latitante, che nei primi mesi del 2015, secondo quanto affermato dal capo decina Nicolò Sfraga, impartiva cogenti ordini per il rispetto delle gerarchie interne alla famiglia di Marsala, nonché per il mantenimento degli equilibri mafiosi dell’area…la descritta interlocuzione avvenuta tra Nicolò Sfraga e Vincenzo D’Aguanno forniva, quindi, importanti e inediti elementi sia in ordine alla presenza di Messina Denaro nel territorio trapanese, che in merito alle dinamiche di funzionamento del consesso associativo, operante nella citata area territoriale, elementi questi ultimi che trovavano importanti e successivi riscontri nelle dichiarazioni rese dai più recenti collaboratori di Giustizia”. Parole nette e chiare. D’altra parte il blitz antimafia aveva nel mirino il capo mafia latitante dal 1993. E’ lui il Visir , tradotto la persona che decide, il califfo , forse anche per via delle sue notorie e celebri frequentazioni con mille donne di ogni dove, e quindi anche per questo sultano ed emiro. Il boss non ha abbandonato né la guida di Cosa nostra trapanese né questa terra, la sua latitanza resta protetta e chissà se non è utile guardare meglio dentro quella pubblica amministrazione che come ha ricordato in conferenza stampa il comandante provinciale dei carabinieri Stefano Russo, continua ad avere al proprio interno un baco , un virus, come quello dei computer, che aiuta la mafia a violare regole e procedure, a imporre il proprio sistema illegale contro quello legale.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.