Il boss di Castelvetrano, latitante dal 1993, ha la sua mafia, quella dei colletti bianchi, e dell’area grigia a contatto con la massoneria
Il boss latitante Matteo Messina Denaro, 55 anni, latitante da 24 anni, non ha assolutamente bisogno di diventare il successore di Totò Riina alla guida della commissione regionale di Cosa nostra. Lui ha già la sua Cosa nostra da comandare. Quella che custodisce i segreti sulle stragi e sulle trattative. Messina Denaro ha messo questa decisione nero su bianco in un “pizzino” trovato dai carabinieri nel 2008 durante il maxi blitz Perseo che portò a 99 arresti. A Pino Scaduto che gli chiedeva supporto e consigli per riorganizzare la commissione provinciale palermitana, Messina Denaro rispondeva scrivendo che “ognuno a casa sua fa quello che vuole, ricordatevi – aggiungeva – però di quelli che sono in galera”. E lui se ne era già ricordato bene quando l’antivigilia di Natale del 1993 a Trapani fece uccidere un poliziotto penitenziario, Giuseppe Montalto, la cui morte era il regalo di Natale dei boss liberi a quelli detenuti. In un altro “pizzino” consegnato ai sodali trapanesi raccomandava poi che “ognuno deve seguire u so filaro”, come quando si vendemmia, ogni vendemmiatore ha un filare di viti affidato. Stessa regola per i mafiosi. O ancora nei “pizzini” trovati ai palermitani Lo Piccolo, Matteo Messina Denaro dettava le regole di mafia sopratutto a Lo Piccolo jr dicendo che se c’era bisogno lui era disponibile ma volentieri avrebbe fatto a meno di occuparsi delle faccende palermitane. L’erede del patriarca belicino don Ciccio Messina Denaro, morto nel novembre del 1998, comanda la “supercosa”, nata nel 1991 per volere di Riina e affidata poi nelle mani dell’allora giovane Matteo. Cos’è la “supercosa”? Per la prima volta lo raccontò a metà degli anni ’90 il neo pentito mazarese Vincenzo Sinacori, all’allora pm antimafia di Palermo, Antonella Consiglio, e al dirigente della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares. “La supercosa – mise a verbale Sinacori – può definirsi una Cosa nostra all’interno di Cosa nostra, senz’altro frutto dello stravolgimento di tutte le regole di essa, la medesima si strutturava in due gruppi di uomini, ciascuno dei quali all’oscuro della composizione dell’altro, ed entrambi alle dipendenze di Totò Riina. La sua nascita fu sancita durante una riunione tenutasi a Palermo…era la risposta alla nascita della super Procura antimafia, ma non solo, Riina diceva che Cosa nostra doveva riorganizzarsi attraverso la costituzione di gruppi molto ristretti i cui componenti non avevano alcun obbligo di informare delle loro azioni i rispettivi rappresentanti e capi mandamento”. Erano gli anni in cui Cosa nostra preparava l’assalto allo Stato e tenendo in mano il comando della “supercosa” Matteo Messina Denaro è diventato così custode di segreti e intrecci. Non succede niente. Questo è l’adagio che sente ripetere ancora oggi percorrendo la terra del boss Matteo Messina Denaro, nonostantre i colpi inferti all’organizzazione mafiosa. Qui è «tutto a posto», «non si dice niente», che suonano come a voler dire, «guai a chi dice qualcosa». Tutto questo accadeva già nel 1966 quando a Trapani arrivava da Lentini un giovane giudice, Giovanni Falcone, aveva 26 anni. Ce lo ricorda il giornalista Francesco La Licata, Falcone arrivava a Trapani dove il solo pensare alla mafia poteva rappresentare un ardire. Siamo nel 2017 e le cose non sono mutate. E’ facile sentirsi dire che la mafia si trova altrove e molti si dicono increduli dinanzi a politici e funzionari pubblici arrestati, anche condannati, di tangenti pagate ai boss, della mafia che si è fatta imprenditoria, di sequestri e confische. Come sia possibile tutto questo è facile da spiegare, a Trapani resiste lo zoccolo duro della “nuova” Cosa nostra, la “supercosa” che vive di connivenze, di intrecci, tra mafia, politica, impresa e massoneria. Tutti aspetti raccontate in decine di indagini, in quelle che hanno toccato pezzi da ’90, come il senatore D’Alì, il vice presidente della Regione Bartolo Pellegrino, i deputati regionali Giammarinaro, Costa e Fratello, e poi altre indagini che hanno visti solo citati il parlamentare Giovanni Lo Sciuto o grandi consulenti del governatore Cuffaro, come il mazarese Totò Calvanico. Siamo in provincia di Trapani dove però la mafia è stata tanto potente da far cambiare anche i confini classici della geografia territoriale siciliana, se ne era anche accorto nel 1988 Mauro Rostagno che come giornalista nella tv locale Rtc era diventato così tanto “una camurria” (citazione Riina) da dover essere ucciso. Trapani è da decenni “provincia di Corleone”. Quando Totò Riina venne arrestato a Palermo il 15 gennaio del 1993 si scoprì che la sua identità era quella di tale Giuseppe Bellomo, nato e residente a Mazara del Vallo. In tasca teneva la carta d’identità così intestata, un documento vero a parte la foto. Giuseppe Bellomo, detto “u mappuso”, si scoprì era uno dei fidati del padrino mazarese Mariano Agate, e quel documento era la prova del legame di Riina con Mazara. A raccontare della presenza del latitante Riina a Mazara sono state le indagini sulla società Stella d’Oriente e sulla loggia segreta Iside 2, dove comune denominatore fu un commercialista palermitano, il massone Pino Mandalari. E poi ci sono gli affari del fratello di Totò u curtu, Gaetano Riina, che il pm Ciaccio Montalto voleva arrestare, e per questo fu fatto uccidere da Riina nel 1983, e al quale il giudice Alberto Giacomelli fece confiscare casa e proprietà, e per questo ammazzato su ordine di Riina il 14 settembre del 1988. A raccontare la ferocia con la quale Riina stringeva in una morsa la provincia trapanese, anche la strage di Pizzolungo del 1985, quell’autobomba diretta al pm Carlo Palermo che fece scempio di una mamma e dei suoi due figlioletti, Barbara Rizzo, Salvatore e Giuseppe Asta. La mafia trapanese è sempre stata un’unica cosa in mano a Riina, Francesco Messina Denaro, Mariano Agate e Matteo Messina Denaro. Già da quando in questa provincia trovarono i loro nascondigli i grandi latitanti di mafia Bagarella, Brusca, i Graviano. Per questo raccontare la storia della mafia a Trapani è raccontare la storia della mafia siciliana, quella più oscura, violenta, quella della droga e di enormi guadagni, quella del riciclaggio nell’economia legale, quella che si è fatta Stato, entrando nelle vite di tutti. E’ la storia di come interi paesi, con le proprie amministrazioni sono cadute nelle mani dei clan. Ma è anche la storia di frequentazioni innominabili, con i servizi segreti, con la massoneria, con la finanza legale. Matteo Messina Denaro sembra, mutatis mutandis, ricordare il vecchio padrino di origine castellammarese diventato boss in America Joe Bonanno. Non è un caso che il pentito Nino Giuffré, ex braccio destro di Bernardo Provenzano, raccontando della provincia di Trapani ha detto che “qui c’è lo zoccolo duro di Cosa Nostra”, con gli affari più lucrosi, che da qui partono i contatti internazionali, quelli con la massoneria, che qui l’esercito mafioso amministra ogni aspetto della vita civile imponendo senza quasi nessun contrasto la propria legge. Una caratteristica di Cosa Nostra a Trapani è stata l’aver preferito nell’ultimo decennio ai canali di riciclaggio proprio, l’infiltrazione massiccia nelle medie e grandi attività produttive e il mantenimento di canali diretti e indiretti con gli ambienti della politica locale e delle pubbliche istituzioni. Insomma la mafia qui a Trapani è diventata Stato, società e mercato, con l’illegalità che è diventata legalità. Matteo Messina Denaro ha raggiunto così l’obiettivo di istituzionalizzare Cosa nostra, inquinando imprese e politica. Senza essere un boss regionale. La sua caratura è nazionale per non dire internazionale, è riuscito ad esserlo seguendo “il suo filare”. Un unicum terribile che ha permesso ai mafiosi trapanesi sin dagli anni ’80 ad arrivare nelle stanze del potere politico di Palermo e Roma, facendo incetta, ancora fino ad oggi, di finanziamenti pubblici spariti nelle casse mafiose. Ci sono le indagini sui beni sequestrati e confiscati che raccontano questa capacità, a Messina Denaro in meno di 10 anni sono stati sequestrati direttamente e indirettamente beni per circa 5 miliardi di euro. Gli ultimi sequestri hanno portato la Dia di Trapani fino in Svizzera nei forzieri di certi mercanti d’arte come il castelvetranese Gianfranco Becchina. Cosa Nostra da queste parti negli ultimi anni è stata capace di fare tanto senza più sparare, riuscendo ad accomodarsi nei salotti che contano per occuparsi di appalti e politica. Una mafia che è ancora oggi capace di restare nascosta, e sarà capace di farsi vedere al momento giusto, brava a sparare quando è ora di sparare e sopratutto di votare quando è ora di votare. Benvenuti nella terra dell’inganno dove la mafia non esiste. Perché ha già vinto. Senza più sparare.