di Attilio Bolzoni
Chiedere il silenzio sulla morte per mano di mafia di un giornalista è di per sé odioso. Se poi a pretenderlo è lo stesso giornale dove quel giornalista lavorava, allora significa che c’è qualcosa di più, qualcosa che anche dopo quasi quarant’anni porta turbamento e impaccio.
Stasera andrà in onda su Canale 5 “Delitto di mafia, Mario Francese”, la storia del cronista giudiziario del Giornale di Sicilia assassinato a Palermo dai Corleonesi il 29 gennaio 1979. Ma dopo un’anteprima del film il direttore del quotidiano — che è anche l’editore, Antonio Ardizzone — ha diffidato Mediaset e la Tao 2 (la società di Pietro Valsecchi che produce la fiction) di diffonderlo «perché contiene frasi, immagini, commenti, affermazioni gravemente lesive dell’onore e della reputazione della nostra società e della testata giornalistica da essa edita».
Il Giornale di Sicilia chiede in sostanza di non raccontare l’isolamento che il nostro collega aveva intorno a sé in quella redazione, chiede di non ricordare i rapporti del vecchio Ardizzone (il padre dell’attuale editore) con il “presidente” della Cupola Michele Greco, di non spiegare quanta intimità c’era fra un redattore e i boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi, di non far cenno all’attentato subito da un capocronista che subito dopo ha lasciato il suo giornale perché nessuno lì dentro gli aveva manifestato solidarietà. Tutte circostanze affiorate nella sentenza che ha condannato Leoluca Bagarella come il sicario di Francese, giornalista straordinario che per primo capì la forza di Totò Riina e che non vide mai in pagina una sua inchiesta sugli affari del boss di Corleone perché fu pubblicata solo dopo la sua morte.
Chiedono una sorta di diritto all’oblio i padroni del Giornale di Sicilia. E non vogliono fare i conti con un passato che non è confinato all’omicidio di Francese. È lo stesso foglio che ha ignorato uno scoop di Francesco La Licata sui cugini esattori Salvo (40 righe in cronaca, ma solo nel giorno che la notizia era diventata di dominio pubblico), lo stesso giornale che — con Giovanni Pepi vicedirettore e Giuseppe Sottile caporedattore — è stato protagonista per anni di una campagna contro il giudice Falcone e il pool con dotti corsivi e commenti al veleno sparati in prima pagina, sempre lo stesso foglio che all’apertura del maxi processo di Palermo ha titolato: «Silenzio, entra la Corte». All’editore di quel giornale il silenzio piace ancora.
fonte: La Repubblica