Torna dinanzi alla Corte di Appello di Palermo Il processo dove l’ex sottosegretario all’Interno è imputato di concorso esterno in associazione mafiosa
Processo da rifare. Si dovrà riaprire il dibattimento di secondo grado per ascoltare quei testi che il pg Nico Gozzo aveva chiesto di sentire nel processo di appello contro l’ex sottosegretario all’Interno e senatore trapanese Tonino D’Alì (Forza Italia), imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione ha accolto dunque il ricorso del pg palermitano e la richiesta che in aula analogamente ha fatto il procuratore generale della Cassazione. Una richiesta condivisa dalle parti civili, tra le quali ci sono le associazioni Libera e quella antiracket “La verità vive”, e ancora il centro Pio La Torre, le associazioni antiracket di Alcamo e Castellammare del Golfo, l’associazione antiracket “Io non pago e tu?” ed ancora il Comune di Castellammare del Golfo. La difesa del politico trapanese si era opposta, ma il giudizio dei giudici della massima Corte è andato a favore dell’accusa. La sentenza con la quale D’Alì era stato prescritto, per i fatti sino al 1994, sostanzialmente la vendita ritenuta fittizia di un terreno di sua proprietà, finito nelle mani dei mafiosi Messina Denaro e Riina, e assolto (per insufficienza di prove) per i fatti successivi sino al 2011, il filone che metteva in evidenza l’esistenza di un tavolino dove mafia, politica e imprese si sono spartiti decine e decine di appalti, fu pronunciata dapprima in primo grado dal gup Francolini nel 2013 e confermata nel 2016 dai giudici di appello, presidente Borsellino, a latere Calvisi e Agate. Un lungo processo, cominciato nel 2011 e che si è svolto nei due gradi di giudizio sempre con il rito abbreviato, mentre in Cassazione i giudici hanno fatto discutere il processo in udienza pubblica. Centrale nell’atto di accusa il rapporto tra il senatore D’Alì e i famigerati mafiosi di Castelvetrano Francesco e Matteo Messina Denaro, padre e figlio, il primo morto nel 1998 il secondo latitante eccellente dal 1993, suoi campieri nei terreni posseduti a Castelvetrano nella contrada Zangara. Il pg Gozzo, che ha sostenuto l’accusa nel secondo grado di giudizio, compito che in primo grado fu svolto dai pm Paolo Guido e Andrea Tarondo, nel suo ricorso ha definito “illogica” la sentenza di appello. Per il pg Gozzo “D’Alì con piena coscienza e volontà ha favorito Cosa nostra per più di 20 anni”. Contestata dal pg la motivazione dei giudici di appello che quasi quasi hanno definito solo casuale il verificarsi di alcune circostanze che vedevano le azioni del senatore D’Alì, come quella del trasferimento da Trapani, nell’estate del 2003, dell’allora prefetto Fulvio Sodano, coincidenti con i desiderata della mafia trapanese. Punto dolente per il pg Gozzo è stata la decisione della Corte di Appello di non accogliere la richiesta di riaprire l’istruttoria dibattimentale, per sentire testi ritenuti decisivi, dall’ex capo della Polizia De Gennaro, all’attuale capo della Dia di Napoli, Giuseppe Linares, per anni capo della Squadra Mobile di Trapani. Nel processo sono contenuti atti che inducono a ritenere D’Alì intenzionato a chiedere il trasferimento da Trapani di Linares, profittando del fatto che sedeva al Viminale come sottosegretario all’Interno. Tra i testi che il pg voleva sentire anche il collaboratore di giustizia Nino Birrittella e il sacerdote Ninni Treppiedi, per qualche tempo vicinissimo al senatore, uomo di fiducia tanto da riceverne segretissime confidenze. Nel suo appello il pg Gozzo ha fatto anche riferimento alle vicende legate al trasferimento da Trapani nel 2003 dell’allora prefetto Fulvio Sodano, vicenda che giudiziariamente viene legata al tentativo di Cosa nostra di riappropriarsi di un’azienda confiscata, la Calcestruzzi Ericina, iniziativa che venne stoppata proprio da Sodano. Agli atti c’è anche un verbale reso proprio dal prefetto, nel frattempo prematuramente deceduto, dove Sodano rammenta uno scontro che proprio sul tema della Calcestruzzi Ericina, ebbe con il senatore D’Alì. Quest’ultimo lamentò a Sodano il suo interesse a favore dell’impresa confiscata “perché alterava il mercato”; di contro, ha evidenziato il pg Gozzo, D’Alì agiva per aiutare quella parte di mercato, quello della produzione del calcestruzzo, che indagini allora già in corso e successive dimostrarono essere “nelle mani della mafia trapanese”. Il processo ha visto come primo punto quella della cessione di un ampio spezzone di vigneto che D’Alì possedeva nella contrada Zangara di Castelvetrano, dapprima ad un mafioso locale, Alfonso Passanante e poi , dopo non essere stata perfezionata la vendita, ad un prestanome dei Messina Denaro e di Totò Riina. Una vendita fittizia, hanno anche riconosciuto i giudici di primo e secondo grado e che però per questo aspetto hanno applicato la prescrizione. D’Alì vende e poi restituisce 300 milioni di vecchie lire all’emissario di Messina Denaro, il gioielliere Francesco Geraci, ora pentito e che ha confermato la restituzione del denaro, andava a ritirarlo a Trapani, ogni qual volta Matteo Messina Denaro gli diceva di andare, presso la sede della Banca Sicula, l’istituto bancario di proprietà della famiglia D’Alì, il cui cda era presieduto da uno zio del senatore, Antonio, uno degli iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli. Era il gennaio 1994 e da lì a qualche mese il banchiere D’Alì si sarebbe candidato al Senato per la prima volta con Forza Italia. Il collaboratore di giustizia Giovanni Ingrasciotta, che Gozzo voleva sentire in appello, ha raccontato che per quella campagna elettorale a favore di D’Alì, Cosa nostra si mosse parecchio. Cosa nostra che però si fece sentire quando le cose cominciarono a mettersi male per tutta una serie di indagini in particolare condotte dalla Squadra Mobile trapanese. Nel dicembre del 1998 con un telegramma, mai trovato, ma che addirittura anche i giudici di appello hanno ritenuto verosimile, dal carcere uno dei figli del capo mafia Vincenzo Virga, si lamentò del fatto che nonostante il sostegno garantito pativa il carcere: “tu sei là che ti diverti e io sono qua rinchiuso”. Intanto è prossima l’udienza finale del procedimento dinanzi al Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani dove contro il senatore D’Alì pende una richiesta della Procura antimafia di Palermo per l’applicazione dell’obbligo di dimora quale soggetto definito “socialmente pericoloso”. In questo procedimento ha già discusso il pm della Dda di Palermo, Pierangelo Padova ed ha cominciato a discutere la difesa, che deve solo concludere dopo di che i giudici si ritireranno per decidere.
Riceviamo e pubblichiamo la dichiarazione degli avvocati del Senatore Antonio D’Alì, Gino Bosco e Stefano Pellegrino: “Ci troviamo di fronte ad un rinvio finalizzato a sollecitare la Corte di appello di Palermo a decidere nuovamente se ascoltare o meno testimoni in larga parte già escussi ed a meglio motivarne l’eventuale rigetto. Testimoni che, ove ammessi, nulla comunque potranno aggiungere a fatti già esaminati nei dieci lunghi anni di un processo “abbreviato”(!) Il che porterá ad altre lunghe attese, ulteriori costi per la giustizia e per giungere alla fine al punto di partenza: l’ennesima assoluzione!“