Pressioni, articoli non pubblicati, foto che sparivano. Fiction su Mario Francese e Giornale di Sicilia: ecco cosa sta scritto nella relazione su informazione e mafia depositata nel luglio 2013 dalla commissione nazionale antimafia. La testimonianza di Francesco La Licata
La fiction su Mario Francese ha aperto un dibattito inquietante, con la voglia, non dichiarata, ma sottintesa, di cancellare pezzi di storia del giornalismo in Sicilia. E’ vero sono fatti lontani nel tempo, ma qualcosa di quel tempo è rimasto, e lo si capisce dal tenore di alcune affermazioni circolate in questi giorni. A me piace capire le cose e allora mi informo, leggo. Leggo, anzi rileggo, e lo faccio assieme a chi di voi ha la pazienza di seguirmi, la relazione su mafia e informazione consegnata di recente al Parlamento dalla Commissione nazionale antimafia. Una relazione che ci aiuta a ricordare e a rimettere insieme i fatti, non attraverso deduzioni ma testimonianze precise. In questi giorni di difesa spasmodica di cosa è stato nel tempo il maggiore dei quotidiani siciliani, il Giornale di Sicilia, ci si è dimenticati per esempio del licenziamento di Leonardo Sciascia dopo un suo editoriale sul delitto Dalla Chiesa e del quasi contemporaneo licenziamento del direttore De Luca che aveva avuto il merito di rimettere in sesto l’intero Giornale di Sicilia dopo il delitto di Mario Francese. Sciascia licenziato per un editoriale sull’omicidio del prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, De Luca mandato via per essere andato oltre i paletti posti dall’editore Ardizzone.
Andiamo con ordine. Per esempio, cosa accadde al Giornale di Sicilia dopo l’omicidio di Mario Francese. Così leggiamo in questa relazione: «Dopo l’omicidio Francese c’è un fatto eclatante… il licenziamento, nel settembre 1985, del vice capocronista dell’epoca del Giornale di Sicilia, Francesco La Licata…il quale aveva l’unica colpa di portare le notizie in quel giornale. La Licata venne licenziato perché aveva pubblicato un articolo con notizie che riguardavano dichiarazioni di collaboratori di giustizia su mafia e politica e che incominciavano a parlare all’epoca dei cugini Nino e Ignazio Salvo (i famosi padroni delle esattorie in Sicilia, rais della politica e della mafia, che comandavano tutto dal loro regno trapanese di Salemi ndr) nomi che per il Giornale di Sicilia erano tabù. La Licata aveva pubblicato quelle notizie su un altro giornale, precisamente su l’Espresso. Perché ? Perché il direttore ed editore, Antonio Ardizzone, fino a quel momento aveva rifiutato di mettere in pagina quelle notizie su mafia e politica. Occorre ricordare che quelli erano i primi anni in cui c’erano i pentiti. Venivano fuori le dichiarazioni dei pentiti e veniva svelato il retroscena di Cosa nostra ». Francesco La Licata così pubblicamente ha raccontato quel periodo: « L’esempio più eclatante è il maxiprocesso di Palermo. Allora lavoravo al Giornale di Sicilia e in quel periodo quel giornale era il buco nero nel panorama della stampa italiana. Il 16 febbraio 1986, il giorno che cominciò il maxiprocesso, apparve in prima pagina un titolo terrificante: « Silenzio, entra la Corte ». Ma quale silenzio, se da una vita aspettavamo che si cominciasse a parlare ? C’era finalmente la possibilità di parlare e il mio giornale diceva: « Silenzio ! ». Ricordo che per quel titolo ci fu una grande polemica all’interno del giornale, anche se all’esterno non se ne parlò: i giornali non si attaccavano tra loro, e poi il nostro concorrente diretto era il quotidiano La Sicilia di Catania, che praticamente faceva la stessa informazione. Mi ricordo che questi giornali adottarono la regola di definire tutto presunto. Tutto per loro era presunto. Perfino Michele Greco era definito « presunto mafioso ». E a proposito di titoli del Giornale di Sicilia ce ne fu un altro riguardante un processo alla mafia di Agrigento. Il titolista fu costretto a scrivere: « Processo alla presunta mafia di Agrigento ». Era una cosa che non stava in piedi. « Poi il giornale cominciò a pubblicare due pagine che si guardavano, una a sinistra e l’altra a destra, una con la testatina « mafia » e l’altra « antimafia », come se le due cose fossero sullo stesso piano. La pagina dell’antimafia era piena di inutili trascrizioni di testimonianze pubblicate pari pari, senza interventi critici. Nell’altra pagina c’erano gli interventi dei difensori degli imputati. Fu realizzata così una perfetta par condicio che non avrebbe mai dovuto esserci ». Grande atteggiamento di cautela mantenuto nel tempo dal Giornale di Sicilia nei confronti dei cugini Salvo. « Quando Falcone emise quella che allora si chiamava comunicazione giudiziaria nei confronti dei Salvo, lavoravo al Giornale di Sicilia – prosegue La Licata – Ebbi la notizia in esclusiva e la comunicai subito al vicedirettore Giovanni Pepi. Lui mi disse che ne avrebbe parlato con il direttore, l’editore Antonio Ardizzone. Dopo una settimana la notizia era ferma, non veniva pubblicata. Nessun’altro sapeva che c’era stata quella comunicazione giudiziaria ai Salvo. Andai di nuovo da Pepi e gli chiesi: « Ne hai parlato col direttore ? ». « No – mi disse – me ne sono scordato, gli parlo stasera e poi ti dico ». Passarono uno, due, tre, cinque giorni senza alcuna risposta. Era stranissimo ! Le indagini sui Salvo, erano un grande scoop ! Tornai dal vicedirettore. Mi disse: « Il direttore ci sta pensando ». Dopo una ventina di giorni passai sottobanco la notizia al cronista di un giornale concorrente, che la pubblicò subito. Quando uscì, andai da Pepi e gli dissi: « Giovanni, finalmente l’abbiamo “bucata” ». Lui mi rispose: « Non ti preoccupare, preparati, comincia a scrivere. Facciamo una “spalla” in prima pagina e una pagina all’interno». Cominciai a lavorarci. Verso le sette del pomeriggio Pepi mi chiamò e mi chiese: « Senti Ciccio, ma la comunicazione giudiziaria per quale reato è ? ». Risposi: « Per associazione per delinquere ». « Ma allora non è per mafia – replicò lui – e allora cambia tutto ». « Scusa Giovanni, ma una comunicazione giudiziaria per associazione per delinquere ti pare un’onorificenza ? », chiesi. E lui: « No, no, allora scrivi quaranta righe che mettiamo a pagina sei ». Io rifiutai e dissi di farle scrivere ad un altro. Questo era il clima negli anni 83-84, dopo le rivelazioni di Buscetta». Il racconto di Francesco La Licata è dettagliato, preciso, al riparo da smentite. La foto segnaletica di Michele Greco, per esempio, che spariva sempre al momento di essere stampata. «Per averla a disposizione – continua La Licata – ne feci stampare diverse copie, le tenevo in tasca e ne tiravo fuori una quando mi serviva. Poi trovai una foto bellissima di Michele Greco al circolo del tiro a volo di Mondello, insieme con un nobile palermitano, il barone Cammarata, e Federico Ardizzone, padre dell’editore. Decido di usarla per un mio articolo e la mando in tipografia con le indicazioni per pubblicarla. Dopo un po’ arriva il proto (il capo della tipografia, ndr) e mi dice: « Guarda che quello lì è il nostro editore ». Fingo di non saperlo. Dopodiché decidono di ritagliare la foto togliendo sia il barone Cammarata sia Federico Ardizzone e lasciando soltanto Michele Greco. Quella è l’unica foto che è rimasta e che verrà poi pubblicata ». Il seguito è incredibile: « Scrissi l’articolo su Michele Greco e il Giornale di Sicilia pubblicò quella pagina su Greco. Dopo mi chiamò Pepi e mi disse: « Adesso dai le carte al collega Calaciura e torna in ferie ». Infatti, ero rientrato dalle ferie proprio perché avevo avuto quei verbali. La richiesta mi sembrò assurda. « Scusa, Giovanni, ma che richiesta è ? Ti sembra giusto che io che li ho trovati do i verbali di Buscetta a un altro collega perché scriva lui ? ». « Prendo atto che non vuoi collaborare », mi disse. « Guarda, voglio collaborare tant’è vero che ho portato un materiale inedito, esclusivo, e tu non me lo stai pubblicando ». Ci lasciammo così ». « Quegli articoli non li ha scritti più nessuno. L’articolo su Sinagra per l’Espresso uscì dopo che c’era stato questo episodio. Per quell’articolo mi accusarono di aver dato la notizia al nemico, alla concorrenza, e mi licenziarono. Sostennero che avevo danneggiato l’azienda. Risposi negando, tramite l’avvocato, che cercavano scuse e che quella era una censura politica nei miei confronti. Il caso scosse il giornale che per tre o quattro giorni non uscì. Venne a Palermo il segretario della Federazione nazionale della stampa, Sergio Borsi, e la trattativa si concluse con una commutazione della pena. L’editore mi riassunse e tramutò il licenziamento in una sospensione di quindici giorni. Gli feci presente che il contratto di lavoro prevede una sospensione massima di dieci giorni e lui mi rispose: « Vabbè cinque te li prendi di ferie ». Al rientro […] mi diedero l’incarico di fare da Palermo le pagine di Enna. Avevamo un solo corrispondente che era un giudice sportivo del Coni che mi chiamava da Oslo per darmi la notizia di apertura della pagina di Enna. E a me mandavano lettere di contestazione per i “buchi” che prendevamo a Enna ! Questo supplizio durò due anni ». Proprio il processo per il delitto di Mario Francese fece uscire legami molto forti, Federico Ardizzone era amico di famiglia di Michele Greco, e pure di Girolamo Passantino, il direttore amministrativo. Di Passantino ce ne erano tre, tre fratelli e lavoravano tutti al Giornale di Sicilia. Il maggiore era il direttore amministrativo. Aveva casa a Ciaculli, in un’abitazione costruita su un terreno regalatogli dai Greco. La Licata torna anche sul delitto Francese: « Nel 1978 bruciarono la macchina al direttore, Lino Rizzi, alla Kalsa. Poi bombardarono la villa di Lucio Galluzzo a Casteldaccia, accanto a quella di Michele e Salvatore Greco, e quindi era ovvio che c’era il loro beneplacito altrimenti una cosa del genere non l’avrebbero fatta. Poi ammazzano Mario Francese. […] Nel 1979, morto Mario Francese, il Giornale di Sicilia va allo sbando, cambia perfino la ragione sociale. Se si guardano le carte di allora, Antonio Ardizzone non ha più alcun incarico nel consiglio di amministrazione. Affidano l’incarico a Piero Pirri, che stava a New York ed era chiamato “il messicano”, per dire quanto fosse distante. In un certo senso è come se loro avessero venduto il giornale e Piero Pirri, che non ha pregiudizi, prende come direttore De Luca, un comunista che era stato tra i fondatori di Repubblica. De Luca trasforma il giornale in un vero giornale: dall’81 all’83 è un giornale che fa antimafia. […] Nell’82, quando ammazzano Dalla Chiesa, torna l’interesse di Ardizzone per il giornale. […] È a quel punto che Ardizzone torna in campo e fa licenziare Sciascia per un editoriale sull’omicidio Dalla Chiesa, perché aveva scritto che è un omicidio di Stato. E dà la lettera di licenziamento al direttore Fausto De Luca, mentre è in ospedale per fare la chemioterapia per un cancro ai polmoni. Lo licenziano in ospedale. Cambia di nuovo il consiglio di amministrazione, Ardizzone prende nuovamente la direzione e fa un’assemblea, raccontata da « I Siciliani », in cui dice: « Abbiamo scherzato. Prima di dire mafioso a uno, voglio la foto ». Nasce così la filosofia del presunto e l’interprete per eccellenza è stato Pepi, che è ancora lì. […] Mi ricordo che se parlavi di un imputato mafioso te lo trovavi in redazione. Cassina veniva di persona, Lima pure… Le carte del maxi processo furono mandate per fax alle esattorie di Palermo ». Che devo scrivere di più? Così è se vi pare!