“A mano disarmata” (Baldini e Castoldi) è prima di tutto un atto d’amore, nei confronti dei figli, del marito e della sua città. Un inno alla vita che richiama alla libertà. Poi è la storia della giornalista Federica Angeli dopo quasi cinque anni di insulti, delegittimazioni, minacce, a lei, alla sua famiglia e ai suoi figli piccoli. Minacce vigliacche giunte dopo le sue inchieste giornalistiche sulla mafia romana.
Federica Angeli non è un eroina. Non abbiamo bisogno di eroi e lei lo sa bene. Lei fa il suo lavoro, racconta da vent’anni, da vera cronista di strada, le vicende del suo quartiere, governato e dominato dalla mafia romana. Si, la mafia romana. Ancora si stenta a definirla come tale. Hanno provato a chiamarla “Suburra”, “Mafia Capitale”, “Mondo di Sotto”, ma ancora non si accetta una mafia fuori dal contesto criminale tradizionale. Oltre cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta esistono anche altre mafie che soffocano lo stivale. Ad Ostia, a Roma, comandano in tanti. Nel quartiere che Federica racconta tra le pagine di Repubblica sono i Fasciani, i Triassi e gli Spada, questi ultimi imparentati con i Casamonica e i Di Silvio, le famiglie che dettano legge e si sostituiscono allo Stato. “Da anti Stato si fanno Stato” – ha affermato più volte la Angeli. Proprio qualche giorno fa abbiamo assistito ad un raid in un bar da parte di due rampolli di queste famiglie mafiose: ad essere stati picchiati il titolare del bar e una donna invalida civile. Criminali spregiudicati, semplicemente mafiosi. Chiamiamoli con il loro nome. La magistratura fa ancora fatica a definire quella romana un’organizzazione mafiosa, anche se negli ultimi tempi le cose stanno cambiando. Nel processo “Mafia Capitale” è caduta l’accusa di mafia, ma la mafia è lì, non ha bisogno di essere riconosciuta dalla magistratura. La società civile la riconosce e la vive quotidianamente. Omertà, violenze, soprusi, estorsioni, traffico di droga, business delle case popolari. Anche se negata per tanto tempo e relegata soltanto alla “follia” di una giornalista che “la vede ovunque”, oggi è stata riconosciuta. La vedono tutti, ma in molti ancora abbassano lo sguardo. Perché chi prova a ribellarsi paga un caro prezzo.
Angeli racconta emozioni, lacrime, momenti personali, intimi. Narra la vita sotto scorta, sua e della sua famiglia. Divieti e tanti, troppi, “no” ai figli. Federica sta pagando un prezzo altissimo: non può accompagnare a scuola i figli Lorenzo, Alessandro e Viola che all’epoca dell’arrivo della scorta avevano 4, 6 e 8 anni. Non possono andare insieme al parco, in spiaggia o al bar per un semplice gelato. Una vita chiusa tra i finestrini oscurati dell’auto blindata e le tapparelle abbassate di casa. Quelle tapparelle che invece non aveva abbassato il giorno in cui tutto cambiò.
“Ai miei figli non insegnerò mai la rabbia, ma la libertà”. Federica non è un’egoista, non ha messo al primo posto la sua “battaglia” mettendo a rischio quella dei suoi figli. Federica ha scelto di lavorare per un futuro migliore soprattutto per loro. “Qua comannamo noi”, è la frase che Federica si sente dire dopo essere stata sequestrata in un lido da Armando Spada, detto Romoletto, mentre stava portando avanti un’inchiesta sui lidi di Ostia. E ancora: “Lo sai che la piccola ha degli occhi bellissimi?” Frasi che fanno raggelare il sangue perché questa gente non si fa scrupoli. Lo stesso boss a uno dei figli proprio sotto casa fece il segno della croce. Angeli ha portato avanti le battaglie proprio per “scardinare” questo sistema. Per ribadire che non sono loro a comandare e che lo Stato può vincere.
Federica, se da un lato può sembrare impotente contro la crudeltà dei boss, dall’altro è una donna forte come una roccia e con un coraggio da vendere. Ha superato i momenti più difficili grazie al supporto del marito Massimo, dei figli, della sua famiglia, del suo giornale e della parte sana (la maggioranza) dei romani e degli italiani.
Abbiamo incontrato Federica il mese scorso al Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia accompagnata dalla figlia Viola, in prima fila ad applaudire la mamma. Ed è in quella circostanza che ha spiegato che “la mafia romana non ha un nome perché c’è ancora una forte resistenza culturale nel riconoscere una mafia che parla l’accento romano. Respingere l’idea che possa esistere una mafia a Roma è come volere allontanare il problema”. Dopo l’incontro abbiamo scambiato quattro chiacchiere, pochi minuti, ma parole indimenticabili sulla libertà dei giornalisti, sulle difficoltà di raccontare le provincie, le periferie, i piccoli centri dove i boss magari abitano una porta sotto la tua o frequentano lo stesso bar. Questo discorso vale a Palermo come a Napoli, a Reggio Calabria come a Roma, a Milano come a Torino. Ma vale soprattutto nelle realtà più piccole come Ostia o città e paesi di provincia. Realtà che molti cronisti purtroppo conoscono bene.
Ma quand’è che la sua vita è cambiata radicalmente? Il 16 luglio 2013 quando viene svegliata da urla e spari. Davanti la sala giochi sotto casa sua assiste a un regolamento di conti tra alcuni uomini del clan Spada e dei Triassi. Lei si affaccia, è testimone di un tentato duplice omicidio. Carmine Spada, Romoletto, urla a tutti i cittadini affacciati di rientrare, nessuno se lo fa ripetere una seconda volta e giù le tapparelle. Lei no. Resta lì. Incollata alla scena che avrebbe denunciato la mattina successiva facendo anche i riconoscimenti fotografici. Il marito, subito dopo la sparatoria, ha tentato di fermarla, ma invano. “Quando i nostri figli saranno grandi e rientreranno a casa, la sera, e magari un proiettile vagante ne colpirà uno, che cosa gli dico: sai, anni fa, mamma ha preferito chiudere la tapparella e tornare a dormire?”. Così, dopo circa 6 ore dalla denuncia, le viene assegnata la scorta. Ad oggi sono oltre millesettecento giorni dietro i vetri di un’auto blindata e dietro le tapparelle di casa che non può più alzare. La sua vita è cambiata per non aver abbassato le tapparelle. Le tapparelle come sparti acquee tra legalità e omertà. E lei ha infranto la regola numero uno della mafia: il silenzio.
Il suo libro entra dentro. Graffia le coscienze e ci interroga su cosa possiamo fare per cambiare le cose. “Se ognuno fa qualcosa”, diceva don Pino Puglisi. Già, quel qualcosa possiamo farlo tutti. Lei sta portando avanti la sua battaglia con la sola arma che possiede: la penna. Una battaglia “a mano disarmata” che anima e crea aggregazione, non solo virtuale (la sua pagina facebook è molto seguita e partecipata). Il suo libro è un vero inno alla vita. La lettera ai figli, che chiude le pagine del libro, trasuda di speranza, amore per la vita e libertà, perché Federica è una donna libera anche se vive una vita blindata.
Angeli racconta anche i suoi rapporti con gli uomini delle Istituzioni: Ministri, magistrati, poliziotti, Questori, Prefetti, colleghi giornalisti e politici. In particolare sottolinea lo straordinario rapporto con il magistrato ed ex assessore alla legalità di Roma Alfonso Sabella, che ha provato a portare ordine ad Ostia.
Un libro che tiene incollato il lettore dall’inizio alla fine, una cronaca avvincente che toglie il fiato. Se non fosse terribilmente tutto reale sembrerebbe un romanzo. Quella di Angeli è una narrazione diversa: lacrime, solitudine, paure, dolori, momenti di sconforto. Ma nello stesso tempo dosi di speranza, di resistenza a un sistema di potere ignorato da molti e per troppo tempo. Un sistema di potere fino a qualche anno fa considerato “roba da bande criminali”. Invece no: in questa storia ci sono tutti gli elementi per il 416 bis, l’associazione mafiosa. Omertà, controllo del territorio, violenza, estorsioni, pestaggi, arroganza, minacce. Una sola parola basta per sintetizzare tutto: mafia.