Racconti migranti/3. La storia di Amir: “A 15 anni in un carcere libico, senza soldi e senza speranze”

Dal Niger alla Libia, dalle cucine del carcere al viaggio della speranza alla ricerca del padre

ALCAMO. “Da dieci anni non ho notizie di mio padre, sono andato via dal Niger per non essere arrestato”. Questo è il racconto di un 19enne nigerino che chiameremo Amir, nome di fantasia. Anche la sua storia è molto complessa, piena di eventi tragici e inaspettati. In Niger studiava e frequentava la scuola. Il suo Paese da anni è centro di diversi conflitti militari e politici, la sua storia è stata condizionata proprio da un conflitto interno. Il padre lavorava in un ufficio di frontiera e a causa di queste tensioni è stato costretto ad abbandonare il Paese nel 2008, quando Amir era ancora un bambino. La mamma e i fratelli restano in Niger, lui, figlio maggiore, era destinato a finire arrestato al posto del padre, nel frattempo fuggito. Così, la madre, prima del compimento della maggiore età decide di mandarlo via. “Mia madre ha venduto la sua mucca per pagarmi il viaggio. Dalla mia città arrivo ad Agadez, in cui resto una settimana perché non avevo abbastanza soldi per raggiungere la Libia”. Amir decide così di andare verso la Libia, per trovare un lavoro e, magari, per ricongiungersi con il padre di cui da anni non aveva più notizie. Trova così il modo di attraversare il deserto del Saharah a bordo di un auto che faceva la spola nel deserto. Erano molti, stretti, con niente da mangiare e da bere. L’auto ogni tanto era costretta a fare lunghe pause a causa di problemi tecnici. Lui è solo, senza niente e nel cuore del deserto. Solo con un piccolo gruppo di ragazzi diretto a Sebha, città libica cuore della rotta dei migranti, la cosiddetta rotta Agdez-Dirkou-Sebha.

Una tratta difficile in cui molto spesso i migranti finiscono vittime delle razzie di polizia e ribelli. Amir arriva sfinito, non conosce nessuno. Usa gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli, ma sta male. Dopo 21 giorni al freddo, tra deserto e viaggio, a digiuno e con poca acqua, si sente male. Accusa anche una forte reazione allergica, ma non è tutto: era molto magro, aveva perso le forze ed era debole. Aveva dolori ovunque. Finalmente, dopo diverse peripezie, senza conoscere la lingua, incontra un amico che lo accoglie in casa, ma con lui era dura, ogni tanto riuscivano a mangiare, ma non sempre. “Cercavo un lavoro, ma non conoscevo l’arabo, quindi era molto difficile. Un giorno mi ferma la polizia e mi porta in carcere.” Il suo racconto è duro, pieno di pause, fa fatica a rievocare quei ricordi e quelle sofferenze. Era molto giovane, debole e senza nessun punto di riferimento. Così la polizia, quella che almeno lui ha riconosciuto esserlo, lo porta in carcere. Nei primi 10 giorni nessuno gli chiede niente, lo lasciano in balìa del nulla e della solitudine. Ricorda ancora bene le botte dei poliziotti: “loro picchiavano molto, io ero uno dei più piccoli quindi non capitava spesso, però erano molto duri”. Lui non conosceva nessuno oltre all’amico, quindi non sapeva chi contattare per uscire da lì. Così, ammanettato, insieme ad altri ragazzi, viene portato in un centro fuori città. Lì riesce a lavorare inizialmente come muratore, portava la sabbia su per i ponteggi. Ma era ancora debole, aveva forti dolori al fianco e alla schiena. Dura una sola settimana. Aveva guadagnato pochi soldi, così finisce nuovamente in carcere. “Perché se avevi soldi o qualcuno fuori riuscivi ad uscire, in caso contrario restavi in carcere”. Dopo un mese un “padrone” lo prende a cuore, lo vede piccolo, gracile, debole, aveva solo 15 anni. Così prendono lui e un altro giovane ragazzo e li portano in cucina. Per quasi un anno ha cucinato per i “carcerati”. Infine altri lavori, a casa di un “capo” e di un suo conoscente. “Ho lavorato anche nella sua casa, lui aveva delle pecore e dei cammelli, lavoravo senza essere pagato. Ero come uno schiavo. Ma era l’unico modo se volevo raggiungere la libertà…” ad un certo punto il suo racconto si interrompe. Porta le mani al volto. Interrompiamo l’intervista. Non ce la fa. Gli provoca troppo dolore.

Il suo racconto fin da subito è stato a “singhiozzo”, troppo intenso di eventi, drammatici e di sofferenza, non riesce a raccontare tutto. Ma è quando chiediamo del padre che si interrompe. Decidiamo di fare una pausa. Piange. Apprendiamo nel frattempo che dal 2008 non ha più notizie del padre, sa solo che era diretto in Libia. Nessuna notizia. A 15 anni si ritrova da solo in una città libica pur sapendo che il padre era diretto proprio in quella nazione. Per 2 anni non ha sentito neanche la madre. I due torneranno a sentirsi dopo essersi liberato dall’oppressione del carcere, ma del padre neanche lei ha più avuto notizie.

Foto Ansa

Riprendiamo, ma decidiamo di omettere la parte sul padre per non evocare altre sofferenze. Con gli occhi ancora lucidi, ripercorre altri momenti della vita nel carcere libico, dai lavori e infine di come è stato visitato in un ospedale per i suoi problemi di salute. Dopo aver messo da parte un po’ di soldi insieme ad altri 3 ragazzi decide di provare a prendere un barcone. Nel frattempo gli giungono racconti terribili: gente morta annegata, molti non sono mai arrivati in Europa. Inghiottiti dal mare per sempre. La paura lo costringe a fare un passo indietro: “Non volevo andare in Italia, ho dato dei soldi ad amici conosciuti nel frattempo per fare la traversata, una volta in Italia mi avrebbero chiamato e ridato i soldi. Ma non li ho più sentiti. So che sono arrivati, ma non hanno più risposto alle mie chiamate.” Parte dei soldi, come spesso accade, li ha dovuti dare a quella che lui chiama “polizia”. Dopo essersi liberato dal carcere viene ospitato da una donna incinta, poi, dopo un mese, anche lei decide di partire per l’Europa. Decide di darle le sue coperte per il viaggio, a lei sarebbero state più utili. Adesso però era di nuovo solo e senza niente. Non aveva più niente da perdere, così decide di “imbucarsi” tra i ragazzi pronti per partire per l’Italia. Di notte, con il buio fitto, con la sabbia fredda sotto i piedi riesce a salire sul gommone. Partono, ma l’imbarcazione accusa subito un problema al motore e torna indietro: Amir è terrorizzato all’idea di essere arrestato e riportato in carcere. Fortunatamente, il danno viene riparato in poco tempo.

Foto Ansa

Amir trascorre quasi 24 interminabili ore in mare. “Ho avuto paura, il mare è terribile, soprattutto di notte. Il gommone era pieno di donne e anche di bambini che piangevano”. Poi, l’inevitabile accade. Il mare si ingrossa, il gommone inizia a rimbalzare sulle onde. Sarà una nave di cui non ricorda la nazionalità che li salverà da una morte certa. Il gommone era parzialmente sommerso dall’acqua quando la lave li affianca. Sono riusciti a salire appena in tempo.

Sbarca a Trapani, viene trasferito a Triscina e successivamente nella vicina Castelvetrano dove segue alcuni corsi di alfabetizzazione. Oggi si trova ospite di uno Sprar di Alcamo. Ed è felice, si trova bene. “Ho il permesso di soggiorno e lavoro in campagna, nel frattempo sto frequentando la scuola e a breve prenderò la terza media. Vorrei continuare a studiare e imparare la lingua.”

Amir è sereno. Ma ha ferite ancora aperte che sanguinano. La madre pensava fosse morto durante il viaggio verso la Libia: “ci siamo sentiti dopo 2 anni, mi credeva morto. Lei adesso sta bene e vive con i miei fratelli più piccoli”. Oggi Amir sorride. Terminata l’intervista ci ringrazia, parlare lo ha aiutato a metabolizzare alcuni ricordi.

Foto di copertina di Massimo Sestini (Ansa).

La prossima storia sarà pubblicata domenica 13 gennaio 2019.

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Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.