A 36 anni dall’omicidio mafioso del magistrato trapanese, la Città di Trapani, Anm e Libera lo ricordano con una opera che verrà collocata a Villa Margherita. Il ricordo del magistrato attraverso i suoi appunti. FOTO
Gian Giacomo Ciaccio Montalto, con il suo volto ricavato tra i rami di un albero, tornerà a guardare sulla sua città, su tutti noi. L’opera ha la firma del maestro Massimiliano Errera. Finanziata dal Comune di Trapani con una serie di partnership, come quelle della Calcestruzzi Ericina Libera, dell’azienda di marmo Pellegrino aderente a Sicindustria. Una struttura metallica moderna che riproduce un albero. L’Albero che celebra la vita e non la morte. Perché questo è il senso che si deve dare al magistrato ammazzato da Cosa nostra nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1983, assassinato davanti l’ingresso della sua casa di Valderice, il piombo mafioso non gli ha dato scampo, restando inchiodato al sedile della sua auto da dove non è mai potuto scendere. E siccome il nostro stile è sempre stato quello di non mandarle a dire le cose, ma di pronunziarle per bene e chiaramente, siamo convinti che a non tutti garberà sentire parlare oggi di Gian Giacomo Ciaccio Montalto come una persona viva. Nel tempo, in questi 36 anni, ci sono stati tentativi di ricondurre alla celebrazione di questi anniversari parlando di un magistrato morto, cancellato, anche dalla storia cittadina. Noi lo vediamo invece vivo, vivo nel lavoro di altri magistrati e giudici, come purtroppo restano vivi quei sentimenti di odio e avversione che ieri erano dedicati a Ciaccio Montalto e oggi sono riservati ad altri suoi colleghi. Anzi nel trascorrere del tempo queste ostilità sono state riservate ad altri magistrati, poi anche loro uccisi da Cosa nostra, pensiamo a Falcone e a Borsellino, pensiamo a Rocco Chinnici e a tanti altri. E siccome, ripetiamo, le cose non le mandiamo a dire, spesso l’astio dei mafiosi ha trovato in certi atteggiamenti anche di magistrati e giudici sponde, certo involontarie, non comportamenti da complici, ma se guardiamo alle vicissitudini sofferte dai magistrati uccisi durante la loro vita dobbiamo dire che i primi guai contro di loro venivano da certi loro colleghi. Gian Giacomo Ciaccio Montalto oggi è vivo come sono vivi certi fermenti dentro i Palazzi di Giustizia di oggi. Come sono sempre pronti a farsi sentire pezzi di società (che è difficile potere definire civile) pronti a bastonare i magistrati e i giudici che lavorano sui diversi fronti del nostro Paese, di questi giorni poi c’è un ministro della Repubblica (sic) che osa pure scherzare e fare battute sui processi penali. Noi spesso in questi anni abbiamo sentito parlare di Gian Giacomo Ciaccio Montalto come di un uomo forte in certe passioni. Poco abbiamo sentito dire di lui del magistrato serio e determinato che invece era, talvolta pure travolto intimamente da un senso di impotenza dinanzi al malaffare e al marciume (anche di quello che poteva arrivare a lui da certe porte accanto) ma era un senso di impotenza che gli dava impulso per un maggiore impegno. Questa ultima annotazione sulla vita di Gian Giacomo Ciaccio Montalto non è nostra, ma appartiene per intero al magistrato, la si può leggere in una delle lettere scritte al giudice Mario Almerighi, ai tempi in cui, 1975, quest’ultimo da pretore di Genova si occupava dello scandalo dei petroli e Ciaccio Montalto a Trapani si occupava di una raffineria che si voleva costruire nella San Vito Lo Capo governata da un sindaco imparentato con la famiglia dei Minore, mafiosi d’alto rango. Nelle pagine della sentenza che ha condannato all’ergastolo per il delitto Ciaccio Montalto i mafiosi Totò Riina e Mariano Agate, c’è un passaggio che ricorda i contrasti di Ciaccio Montalto con un suo collega della Procura, il pm Antonio Costa, che qualche tempo il delitto verrà arrestato perché sospettato di essere stato un giudice corrotto dai mafiosi. Eppure si contano sulle dita di una mano i colleghi di Ciaccio Montalto in grado di ricordare quei litigi. Gli atti dell’istruttoria aperta al Csm dopo l’omicidio, durante la quale furono sentiti parecchi giudici e magistrati trapanesi, sono avari da questo punto di vista. Ciaccio Montalto fu ucciso perché la sua carriera fu tutta improntata a combattere Cosa nostra in anni in cui non esisteva nemmeno ancora l’articolo 416 bis del codice penale, la mafia all’epoca non esisteva né per il codice né per il comune sentire della gente. Era un invenzione di certi magistrati “pazzi”. Ciaccio Montalto nei suoi appunti scriveva come questo genere di umanità ispirava più tenerezza che rancore. Speranzoso che la collettività alla fine si rendesse conto come fossero sbagliati questi comportamenti, per accorgersi di avere bisogno di questi uomini di giustizia. Ancora questo si legge tra gli appunti di Ciaccio Montalto, recuperati dalla figlia Marene. Stamane a Valderice Marene regalerà al Comune alcuni degli appunti del padre. Altro bel segnale di una comunità, quella valdericina, che non vuole dimenticare ma che sopratutto vuole conoscere e far conoscere. Vuol fare, si spera, impegno dalla memoria. “Posso dire che aveva 41 anni – scrive oggi così del padre Marene Ciaccio Montalto – Era nel fiore della Sua vita e la amava in tutte le sue forme. Amava la musica, il mare e la Libertà: di pensiero e di parola. Ha fatto il proprio lavoro con scrupolo e dedizione e per questo ha pagato il prezzo più alto. Lo ha pagato per tutti, anche per quelli che girano la testa e tacciono…”. Non servono altre parole per ricordare oggi Gian Giacomo Ciaccio Montalto. O meglio oggi più che mai servono le parole, magari quelle che i giovani possano magari decidere di scrivere per dimostrare di avere capito più degli adulti, andando ad appendere i loro pensieri sui rami dell'”Albero di Ciaccio Montalto”, perché tutta la società sia davvero più civile e meno collusa.