Racconti migranti/6. La storia di Assan: “Non ho mai conosciuto i miei genitori, adesso voglio solo studiare”

Per mesi da solo in cerca di fortuna: Dalle violenze in Gambia alla nuova vita in Sicilia e la passione per la musica

Tra un accordo e un giro di do, Assan sorride e si esercita con la sua inseparabile chitarra classica. È bravo, dicono gli altri ragazzi che con lui formano la Libera Orchestra Popolare di Marsala, di recente decimata dagli effetti del Decreto Salvini. Ci concede una chiacchierata durante una pausa delle prove. Assan, nome di fantasia, è un ragazzo timido, ma talentuoso. Suona la chitarra da poco ma riesce già a seguire gli altri con più prove alle spalle. Lui viene dal Gambia, ha 18 anni e si trova in Italia dal febbraio del 2017.

La sua storia è segnata da un profondo lutto, che ancora oggi gli provoca molto dolore. Non ha mai conosciuto sua madre. Morta durante il parto. “Non l’ho mai conosciuta, è morta subito dopo avermi partorito. Non ho mai conosciuto neanche mio padre, andato via subito dopo la mia nascita.”

Assan cresce con la zia, che poi lo affida ad una famiglia di amici. Non ha fratelli o sorelle, è completamente da solo. “Mia zia non poteva più mantenermi. Così quando tutta la sua famiglia decise di trasferirsi in un altro paese mi affidò a degli amici. Per me così iniziano i momenti più difficili.” Assan era piccolo, aveva appena dieci anni e aveva già abbandonato la scuola dopo averla frequentata per sei anni. A lui la scuola non era permessa, ai figli della coppia che lo prese in affidamento invece si. Non riusciva a digerirlo. “Ogni giorno mi mandano a lavorare in campagna, iniziavo alle cinque del mattino e finivo in serata. Era duro, piangevo, soffrivo, non stavo bene. Non ero adatto per il lavoro della campagna, ero piccolo e debole. Continuavo a chiedermi: perché io non posso studiare?”

Foto Ansa

Una domanda a cui Assan non darà mai una risposta. Ma le cose iniziano ad andare anche peggio. “Mi picchiavano quando mi rifiutavo di andare in campagna. Mi facevano molto male, mi frustavano. Sono arrivati quasi a rompermi un braccio.” Assan racconta senza esitazioni le tante violenze subite. Fisiche e psicologiche. “Volevo solo studiare, così decisi di andare via. Cosa avevo da perdere? Non avevo una famiglia, ero solo, e quella condizione non poteva più andare avanti.” Così Assan scappa, fugge via dal Gambia e raggiunge il Senegal, poi il Niger, il Burkina Faso, la Nigeria e il Mali. Ma in nessun posto si sente a “casa”. Non ha soldi, non ha niente, non conosce nessuno. Inizia così a lavorare nei mercati popolari, portava le cassette della frutta, le buste della spesa, fino a portare i carrelli. Era piccolo, ma doveva reagire e trovare i soldi necessari per fuggire ancora più lontano. Arriva così a Sebha, città di passaggio al centro del deserto libico. Sei mesi di inferno. Piccoli lavoretti, e infine la prigione. “Erano dei centri di detenzione, non dei veri e propri carceri. Era terribile, violenze, torture, ho assistito a scene che non dimenticherò mai. Ho pagato dei soldi per raggiungere la Libia e pensavo di trovare un po’ di tranquillità, invece ho trovato l’inferno.”

Assan tocca con mano la violenza. Abituato a subire botte e punizioni, si rende presto conto che l’inferno esiste. Quando parla di quei centri tentenna, ha paura, come se da un momento all’altro dovessero aprirsi davanti a lui le porte dell’ennesimo centro di detenzione. Nel frattempo lavora per i carcerieri, sempre in campagna. Viene condotto a Tripoli, da lì finisce a Sabrata, la città che rappresenta la tappa finale per molti migranti che cercano di raggiungere l’Europa. Resta in quella città circa un mese. “Nel centro c’era poca acqua e non si mangiava sempre. Era orrendo. Molti stavano male e non riuscivano a lavorare, io ero molto debole. Se diventavi un “peso” ti uccidevano. Ho visto morire diversi ragazzi: a lavoro nei campi sparavano, ti ferivano alle gambe se non eri veloce. Ricordo che un giorno portai via in braccio un ragazzo ferito a colpi di pistola. Nessuno si interessava alle sue condizioni. Non ci fu nulla da fare, morì subito.” Assan ricorda ancora la puzza del sangue, in quei circa trenta giorni in città ha vissuto attimi di orrore e terrore. Così una volta raccolti i soldi necessari, decide di pagarsi il viaggio per l’Italia. Sperando sia l’ultimo viaggio della speranza. Non aveva più nulla da perdere, in Libia rischiava la vita ogni giorno.

Fonte Ansa

“Siamo partiti dalla spiaggia alle 22, eravamo tantissimi, circa 160 tra uomini, donne e bambini. Dopo alcune ore in mare si è improvvisamente rotto il motore. Eravamo in balìa delle onde del mare”. Assan racconta quegli attimi come i peggiori della sua vita. Ricorda le urla di disperazione delle persone. Il motore in avaria, attorno il buio e il nulla. L’oscurità inghiottiva tutto, comprese le speranze. “Sono state le ore più lunghe della mia vita. A bordo c’era il panico. Le mamme cercavano invano di tranquillizzare i bambini disperati. Io ero praticamente rassegnato alla morte. Si, ho pensato veramente di morire. Nessuno intravedeva una via di fuga e il mare si faceva sempre più agitato e buio. Nessuna luce all’orizzonte. Era la fine.”

Una nave spagnola si accorgerà di loro soltanto intorno alle 14 del giorno successivo, dopo ore e ore sotto il sole. “Eravamo senza acqua, senza cibo e i bambini stavano male. Il sole era fortissimo e bruciava le nostre teste.” La ong spagnola li porta così al porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Lì vengono schedati, identificati e smistati nei vari centri di accoglienza dell’Isola.

Assan, dopo aver girato alcuni centri siciliani, nel maggio dell’anno scorso arriva a Marsala. Oggi è felice, sereno, anche se un po’ timido non nasconde la commozione. “Qui sto molto bene, grazie ai ragazzi del centro sociale di Sappusi ho imparato a suonare la chitarra e adesso sono nella Libera Orchestra Popolare. Non smetterà mai di ringraziare tutti per l’accoglienza. Mi sento finalmente a casa.” Assan ha trovato una casa, degli amici, e una passione per la musica fino ad oggi sconosciuta. Ma c’è di più. “Ho già preso la terza media e qui a Marsala frequento il primo superiore. La mattina vado a scuola e nel pomeriggio, alcuni giorni a settimana, svolgo un tirocinio in un pizzeria. Mi trovo bene, mi piace molto questo lavoro.”

Arcobaleno, quartiere popolare di Sappusi

Parla bene l’italiano e ogni mattina frequenta la scuola, quella che in Africa gli venne negata. Suona la chitarra nel tempo libero e ha imparato a fare la pizza. “Mi piacerebbe molto fare il pizzaiolo. Ho già imparato a fare a casa da solo l’impasto della pizza e del pan di spagna. E dicono che sono anche bravo”, sorride Assan. “In Gambia non voglio tornare, almeno non adesso; non ho nessuno in Africa. Vorrei restare qui, per continuare a studiare e lavorare. La mia famiglia adesso è questa di Sappusi. Ripeto, non smetterò mai di ringraziare i ragazzi del centro, le varie associazioni che qui lavorano, l’orchestra e tutta la comunità di Marsala che mi ha fin da subito fatto sentire a casa.”

Ma c’è ancora qualcosa che spaventa Assan, il Decreto Sicurezza. “Sto sbrigando i documenti per restare qui in Italia, ma sto riscontrando davvero molte difficoltà. In caso di risposte negative non saprei dove andare, un po’ il Decreto Salvini mi spaventa. Forse Salvini non ha capito che non tutti gli africani sono dei criminali. Non siamo tutti uguali, molti ragazzi sono venuti qui per studiare e lavorare. Molti amici che prima erano qui a Marsala adesso sono stati costretti ad andare via. Non ho notizie di loro, sono rimasti in mezzo alla strada e sono andati via in cerca di fortuna”.

Usciamo fuori dal centro, sopra il quartiere popolare di Sappusi è comparso un arcobaleno dopo un breve acquazzone: “Io oggi mi sento un po’ italiano e sono in debito con questo Paese. Sono musulmano e mi hanno insegnato che siamo tutti fratelli e figli di Dio.”

La prossima storia sarà pubblicata domenica 17 febbraio 2019.

Foto di copertina ANSA

CONDIVIDI
Commenti Facebook
Articolo precedenteErice, le accuse di Pedone
Articolo successivoAl Teatro Apollo “La lacrimosa storia di Giulietta e il suo Romeo”
Emanuel Butticè. Castellammarese classe 1991, giornalista pubblicista. Laureato in Scienze della Comunicazione per i Media e le Istituzioni all’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul rapporto tra “mafia e Chiesa”. Ama viaggiare ma resta aggrappato alla Sicilia con le unghie e con i denti perché convinto che sia più coraggioso restare.