“Orizzonti di Giustizia Sociale”
di don Luigi Ciotti*
La memoria non è soltanto il fondamento dell’identità (una persona a cui per disgrazia un trauma tolga la memoria, vive il dramma di non sapere più chi è) ma lo è anche dell’etica, ossia della conoscenza del bene e del male.
Attraverso la memoria custodiamo le nostre esperienze e ne facciamo oggetto di riflessione sviscerandone il senso e il succo. Grazie alla memoria impariamo a distinguere il positivo dal negativo e diamo così un indirizzo alla nostra vita, coerentemente a ciò che crediamo sia giusto, bello e vero. Grazie alla memoria troviamo nel passato, recente o remoto che sia, un’indicazione per il futuro. Grazie alla memoria apriamo nei momenti di crisi un varco alla speranza.
Ma attenzione: ciò che vale per il singolo individuo, vale anche per una comunità e persino per un intero Paese!
Un Paese senza memoria – o che manipola e falsifica la sua memoria rimuovendo le pagine più controverse e dolorose– è un Paese che si toglie il terreno da sotto i piedi, che ruba a se stesso la speranza, perché è solo la conoscenza degli errori che ci permette di non ripeterli, è solo la coscienza dei nostri limiti e delle nostra fragilità che ci permette di diventare migliori, di crescere come comunità e come esseri umani.
È stata questa concezione della memoria come indagine interiore ed esame di coscienza ad aver ispirato, nell’ormai lontano 1995, la “Giornata della memoria e dell’impegno”. C’era, ovviamente, la solidarietà verso i famigliari delle vittime innocenti delle mafie, persone straziate e disperate perché in gran parte – più del 70% dei casi! – private della loro legittima aspettativa di giustizia e verità.
Ma c’era anche la convinzione che solo facendo luce sul nostro più buio passato – quello del crimine mafioso e non solo – avremmo potuto costruire un futuro diverso. Ecco allora l’idea di associare, in un binomio inscindibile, la parola memoria con la parola impegno: quella che ricordava le vittime delle mafie non poteva essere una memoria di occasione, una celebrazione magari sentita ma retorica, doveva essere un pungolo per le coscienze e uno stimolo all’impegno, perché solo così quei nomi ripetuti ogni 21 marzo per le vie di una città sempre diversa avrebbero acquistato pieno significato e raggiunto i cuori e le coscienze delle persone: chi ha lottato contro le mafie, chi non si è piegato ai loro soprusi, chi ha denunciato il crimine mafioso e la varie complicità che gli ha permesso di diffondersi attraverso “aree grigie” sempre più vaste nell’economia, nella politica, nella finanza, non lo ha fatto per avere intitolata una strada, una piazza, una scuola, ma per un ideale di giustizia che tocca a tutti noi – ciascuno con le sue competenze, la sua passione, le sue capacità – realizzare.
È in questo cammino che si rinnova ogni 21 marzo per procedere in un impegno quotidiano scandito da tre parole – continuità, condivisione e corresponsabilità – è in questo cammino, dicevo, che il problema della memoria si è rivelato molto più grave e più vasto del previsto.
Il nostro è un Paese colpito da una grave perdita di memoria, una vera e propria emorragia di memoria. Quindi un Paese in grave crisi di identità, terreno propizio per avventurieri e demagoghi. Cosa fanno infatti questi signori? Intercettano le paure e lo smarrimento di chi ha perso il legame con la propria storia per proporre identità rassicuranti, ma posticce e incompatibili con quella stessa storia.
Non si spiega altrimenti il riaffiorare di varie e sempre più marcate forme di razzismo in un Paese che ha conosciuto, durante il fascismo, la vergogna delle leggi razziali. Tantomeno si spiegano le misure del cosiddetto “pacchetto sicurezza” contro i migranti: anche qui l’ingiustizia, il potere travestito da legalità, nasce dalla rimozione della memoria e del passato, il passato di un Paese che ha conosciuto i drammi e le sofferenze dell’immigrazione e dal quale ci si aspetterebbe dunque un atteggiamento e un approccio diversi di fronte a persone che, come molti nostri padri, nonni e bisnonni, hanno dovuto lasciare case, terre e affetti non per libera scelta, ma perché costrette da un sistema politico-economico che ha prodotto a livello globale disuguaglianze come mai se ne sono viste nella storia moderna. Le chiamano migrazioni ma dovrebbero chiamarle “deportazioni indotte” perché questo sono.
Ecco allora che ricostruire una memoria vera, una memoria viva, è la premessa per ridare dignità e speranza a una comunità e a un Paese, perché dei vuoti e delle manipolazioni di memoria approfittano i ladri di dignità e di speranza: le mafie, i corrotti, e tutti quei poteri che tutelano e ingrassano l’interesse privato invece di tutelare e promuovere il bene comune.
Vi invito allora, ragazzi, a venire alla “Giornata della memoria e dell’impegno” per costruire insieme un altro pezzo di speranza, perché solo insieme il desiderio di cambiamento diventa forza di cambiamento.
Il 19 marzo di venticinque anni fa veniva ucciso a Casal di Principe dalla camorra don Peppe Diana, prete che il Vangelo lo viveva con radicale coerenza, non si limitava a predicarlo. Don Peppe Diana aveva scritto un testo profetico, “Per amore del mio popolo non tacerò”, che andrebbe riletto e meditato per capire la differenza tra chi ama davvero il popolo e chi, come i “populisti” di ieri e di oggi, lo inganna e lo sfrutta.
Ma Peppe Diana ci chiedeva anche di “Salire sui tetti a riannunciare parole di vita”. La memoria che si fa davvero impegno richiede a tutti noi, su quei tetti, non solo di salire ma di restare.
Pubblicato da “Il Bo Live”, testata giornalistica dell’Università di Padova.
* Presidente nazionale dell’associazione Libera, nomi e numeri contro le mafie