La decisione del Tribunale delle misure di prevenzione di applicare all’ex senatore D’Alì
Sedeva su una delle poltrone più importanti del Viminale, sede del ministero dell’Interno, nel frattempo però avrebbe tenuto contatti con uomini di Cosa nostra. Rapporti che hanno portato i giudici del Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani a ritenerlo “soggetto pericoloso”. Protagonista di questa pagina giudiziaria trapanese è l’ex senatore di Forza Italia Tonino D’Alì. E’ rimasto seduto in Parlamento, al Senato, dal 1994 sino all’ultima legislatura conclusasi nel 2018; dal 2001 al 2006, durante il Governo Berlusconi, è stato sottosegretario al ministero dell’Interno. I giudici hanno stabilito che per la sua pericolosità sociale dovrà rispettare l’obbligo di dimora a Trapani per i prossimi tre anni. Il procedimento nei confronti del politico era cominciato nel 2017, quando in piena campagna elettorale per le amministrative a Trapani, D’Alì era allora candidato sindaco, la Procura antimafia di Palermo notificò la richiesta di applicazione per cinque anni dell’obbligo di dimora a Trapani. Il procedimento è andato avanti sino al dicembre scorso, dopo otto mesi in cancelleria è stata depositata la decisione che certamente provocherà reazioni nel mondo politico siciliano. In trecento pagine è ripercorsa la storia di un territorio, quello trapanese, terra di inciuci e di commistioni, dove la mafia si è infiltrata nelle banche e nell’economia così come nella politica e nelle imprese, e spesso in queste vicende il senatore D’Alì ha spesso fatto da comune denominatore. D’Alì da uomo forte delle banche, per oltre vent’anni è stato un uomo forte della politica. Da banchiere della Banca Sicula, che secondo il fiuto di un investigatore ferrato, il questore Rino Germanà, sarebbe stata una delle banche dove la mafia, quella delle imprese e dei “colletti bianchi” e non quella delle coppole e delle lupare, riciclava denaro, a autorevole senatore ammesso alla corte di Arcore del presidente Berlusconi. Tra i documenti depositati nel procedimento anche la trascrizione di una conversazione intercettata in carcere il 18 marzo 2016, a parlare il boss di Brancaccio (Palermo) Giuseppe Graviano. E’ stato sentito parlare di un “senatore D’Alia” legato a un “latitante che stanno cercando”. Secondo i magistrati antimafia i riferimenti sono al senatore trapanese e al latitante originario di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro. D’Alì è per adesso sotto processo dinanzi alla Corte di Appello di Palermo, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quello in appello è un processo bis. La Cassazione infatti ha annullato la sentenza di secondo grado, che ricalcando quella di primo grado, con la quale D’Alì era stato assolto per i fatti successivi al 1994 ma aveva avuto dichiarata la prescrizione per i fatti antecedenti allo stesso anno. La Cassazione bacchettò i giudici che avevano ritenuto non continuativo il rapporto intercorso tra i primi anni ’90 e sino al 2011 tra D’Alì e mafiosi. Boss importanti, come il famigerato latitante Matteo Messina Denaro, ricercato da 1993 e che con il padre, don Ciccio Messina Denaro, capo della cupola provinciale di Trapani, come lo è oggi il figlio, faceva da campiere nei terreni di Castelvetrano del barone D’Alì.