Il diritto alla verità viene negato

Il ricordo del giornalista e sociologo Mauro Rostagno a 31 anni dal suo omicidio cozza contro un territorio che gira le spalle alle sentenze

Io, l’ho scritto spesso, e lo riscrivo ancora, non ho conosciuto Mauro Rostagno, quindi non faccio parte di quella certa fiera delle vanità che si organizzano in questa triste ricorrenza. Ho conosciuto Mauro Rostagno attraverso la lettura degli atti giudiziari, così come mi è accaduto fare per altri morti ammazzati. Una costante letta in queste carte è quello che ad ammazzare questi poveri cristi, magistrati, giudici, poliziotti, gente qualsiasi, non era stata la mafia, perché a Trapani la mafia non esiste. Pensate, lo disse un sindaco e lo affermò anche un Procuratore della Repubblica. Lo sostenne quasi anche un generale dei carabinieri che sentito nel processo per il delitto Rostagno ricordò che la zona dove Rostagno fu ucciso spesso era frequentata da cacciatori. Insomma ci mancò poco a dire che Rostagno era stato ucciso per un incidente di caccia. Peccato che quel generale, quel procuratore, nei giorni appena successivi al delitto non si sono accorti, scrivo così per non scrivere di peggio, che nella zona del delitto c’era un certo giro di massoni, gli stessi che a Trapani frequentavano i mafiosi iscritti nella stessa loggia, non si sono ricordati del lavoro giornalistico di Rostagno, fatto di quotidiane denunce, e in una città dove la gestione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti era in mano al capo mafia Vincenzo Virga, ovviamente se Rostagno faceva vedere la città sporca metteva in difficoltà l’amministrazione pubblica nei rapporti con l’azienda del mafioso, e Virga se ne aveva a male per quegli editoriali. La mafia non gradiva Rostagno, per quelle telecamere sempre in giro, dentro le aule giudiziarie, pronte a riprendere il potente capo mafia Mariano Agate, o a casa delle madri che vedevano i loro figli morire per colpa della droga, o andava ad intervistare Paolo Borsellino, gli scrittori Sciascia e Cimino. Maddalena Rostagno, la secondogenita di Mauro, al processo ha detto chiaramente cosa stava facendo il padre in tv, a Rtc: “Mio padre aveva scelto di fare il terapeuta di questa città”. Così come faceva il terapeuta di quelle ragazze e quei ragazzi che erano entrati nella comunità Saman per guarire dalla tossicodipendenza. La città non è voluta guarire. Ancora oggi resta dipendente delle decisioni che arrivano oggi come ieri dalle logge massoniche, dove la mafia è presente con i suoi uomini migliori, insospettabili colletti bianchi, politici, parlamentari. Eppure le ragioni per indignarsi ci sono, sono a portata di mano. Diversi processi, l’ultimo appena di pochi giorni addietro ha riguardato un ex sottosegretario all’Interno, il senatore D’Alì, ritenuto dai giudici socialmente pericoloso per i suoi contatti con Cosa nostra, hanno disvelato i rapporti di potere che regolano la nostra vita, le relazioni criminali fra mafiosi, dirigenti pubblici, politici ed imprenditori che spesso hanno trovato nelle logge massoniche il loro luogo d’incontro. Le ragioni storiche e politiche che hanno condotto all’omicidio Rostagno sono a portata di mano, ma in città non c’è una larga volontà a sostenere questa verità, e cioè quella che ad uccidere è stata la mafia più potente e spietata, il diritto alla verità viene negato, rifiutato e celebrazioni a parte facciamo morire un’altra volta Ciaccio Montalto, Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta, Mauro Rostagno, Alberto Giacomelli, Giuseppe Montalto e tanti altri, quando accettiamo che dinanzi alle sentenze si sostiene il contrario, e invece di ricordare le vittime si sostengono i loro aguzzini diretti o indiretti. L’informazione ha un ruolo importante, ma spesso al cittadino è servita una informazione paludata, la città continua a crescere nella palude, dove, come mi disse un giorno un prefetto, si ha la sensazione di camminare sul semolino. C’è chi prova a raccontare queste cose scrivendole sui giornali, sui quotidiani on line, sui blog, c’è chi non ci prova affatto, c’è chi scrive le cose a metà, e c’è chi è pronto a smentire ogni cosa, o c’è chi il bavaglio se lo mette senza nemmeno bisogno che qualcuno glielo dica di fare, capisce l’andazzo e si adegua da solo. Ovviamente i più inaffidabili tra i giornalisti sono coloro i quali che carte giudiziarie alla mano raccontano, senza bavaglio, il lavoro di magistrati ed investigatori. e tutto questo perché i lupi che hanno circondato e azzannato Mauro Rostagno continuano a girare per le strade trapanesi; non sparano più, azzannano ugualmente con la maldicenza, con le bugie, cercando di sporcare l’onesto lavoro condotto da pochi. Gli appunti di Rostagno sono disponibili, possiamo leggerli, ci sono scritti nomi che troviamo nelle indagini più recenti, persone che continuano a comandare, non hanno le coppole e le lupare, ma indossano le grisaglie, hanno sotterrato le armi e oggi usano l’arma della corruzione, vestono i “falari” – grembiuli – della massoneria, quella contro la quale Rostagno aveva puntato la sua attenzione. Per questo era diventato una “camurria” come andava dicendo il boss di Castelvetrano Francesco Messina Denaro. Messina Denaro passeggiando in mezzo alla bellezza di un agrumeto decise di farlo ammazzare. Ad ascoltarlo anche suo figlio Matteo, l’attuale latitante super ricercato dal 1993. Il delitto Rostagno è la drammatica conseguenza di quello che succedeva all’epoca a Trapani, in quel 1988 quando la mafia diventava un’altra cosa, impresa e mafia cominciavano a diventare un tutt’uno amalgamati dalla massoneria. Oggi è ancora così , certi trasformismi non dovrebbero ingannarci. Rostagno divenne pericoloso perché mise insieme giornalismo e impegno sociale, per tentare di cambiare le cose. State certi se la mafia tornasse a sparare e uccidere ci sarà chi dirà che non è stata la mafia ad uccidere, salteranno fuori storie di corna e di soldi, magari dollari e super misteri. Sempre per rendere la verità non afferrabile. A Trapani il 2019 assomiglia tantissimo ancora al 1988, a quel 26 settembre quando i lupi della mafia azzannarono mortalmente Rostagno.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.