”Dal quarto processo sulla strage di Pizzolungo un nuovo tassello di verità”
Intervista a Margherita Asta
Di Aaron Pettinari*
Dieci mesi fa, a Caltanissetta, davanti al gup giudice Baldo, si è aperto il processo “Pizzolungo quater”, nuovo procedimento penale per la strage mafiosa del 2 aprile 1985 in cui persero la vita la giovane mamma Barbara Rizzo, 31 anni, e i gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. Vero obiettivo di quell’attentato era il giudice Carlo Palermo ma morirono la donna e i suoi figli che passavano di lì con la loro auto mentre andavano a scuola.
Una strage su cui, nonostante i 34 anni trascorsi e i ben tre processi effettuati, ancora non ha consegnato una completa verità, in particolare sui motivi che portarono Cosa nostra a colpire un magistrato che solo da quaranta giorni si era trasferito in Sicilia, a Trapani, dopo essere stato protagonista di delicatissime indagini presso il Tribunale di Trento.
Per la strage sono stati condannati all’ergastolo quali mandanti i capi mafia di Palermo e Trapani, Totò Riina e Vincenzo Virga, quali soggetti che portarono a Trapani il tritolo usato per l’autobomba, i mafiosi palermitani Nino Madonia e Balduccio Di Maggio.
Imputato nel processo, che si celebra con il rito abbreviato, è Vincenzo Galatolo, già condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, accusato di essere stato non solo il mandante del delitto ma anche di aver per primo pensato ed ideato l’attentato al magistrato Carlo Palermo.
Una figura, quella del boss palermitano, che è al vertice di una famiglia, quella dell’Acquasanta, particolarmente vicina ad ambienti “deviati” dei servizi segreti.
Nel 1989, erano stati proprio i Galatolo ad aver organizzato il fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. Quell’attentato che lo stesso giudice aveva attribuito a “menti raffinatissime”.
E la strage di Pizzolungo, nel suo contorno, presenta le medesime trame oscure.
Il nuovo processo si è aperto grazie alle dichiarazioni della figlia “ribelle” Giovanna Galatolo e del pentito Francesco Onorato.
Lo scorso settembre il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, al termine della sua requisitoria, ha chiesto una pena a 30 anni di carcere per il capomafia.
Oggi, dopo tre mesi, si tornerà in aula con le discussioni delle parti civili del processo, ovvero i sopravvissuti all’attentato, il giudice Carlo Palermo, l’autista Rosario Maggio, e gli agenti di scorta, Raffaele Di Mercurio, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta.
Difesa dall’avvocato di Enza Rando, parte civile è anche Margherita Asta, la figlia più grande di Barbara Rizzo e sorella maggiore di Giuseppe e Salvatore, che da quel lontano 1985 continua a chiedere verità e giustizia. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per condividere quelle che sono le sue sensazioni per questo processo.
Margherita Asta, è in via di conclusione il quarto processo sulla strage, segno delle difficoltà che vi sono state fin qui per raggiungere la verità. Cosa si aspetta?
Dopo quasi trentacinque anni dalla strage sappiamo che il percorso per raggiungere la verità completa è ancora lungo. La speranza è che sia scritto un altro tassello di verità.
Così come è avvenuto nel processo contro Riina e Virga come mandanti. Lì è scritto nero su bianco il cortocircuito che c’è stato sui veri esecutori materiali della strage e che il processo argomentativo che fu sviluppato era totalmente errato.
Si riferisce alle responsabilità dei boss di Alcamo e Castellammare, Nino Madonia, Vincenzo Milazzo (ucciso però nel 1992) e Gioacchino Calabrò?
Esattamente. Loro, individuati già nel 1987, furono condannati in primo grado ma poi assolti in appello e in Cassazione. Il pentito Giovanni Brusca ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di “avvicinare” i giudici del processo di Pizzolungo. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Ma non possono essere riprocessati, per via del “ne bis in idem” per cui non possono tornare imputati per un reato per il quale esiste sentenza definitiva di assoluzione.
Il processo contro Galatolo perché diventa importante?
Perché un’eventuale sua condanna collegherebbe ancor di più la strage di Pizzolungo a tutto un apparato di processi che si sono celebrati e che ci stanno celebrando anche a Caltanissetta. Da questo punto di vista ho grandissimo rispetto per i magistrati di Caltanissetta che hanno riaperto questo segmento e che hanno sostenuto un’accusa contro Galatolo ormai 35 anni dopo i fatti. Non è facile ma io ho piena fiducia nel percorso della magistratura.
Tornando al percorso verso la verità ricordiamo che il tritolo usato a Pizzolungo è lo stesso usato in altre stragi come quella al treno rapido 904, il tentativo di attentato all’Addaura e la strage di via d’Amelio. Può esserci un filo conduttore tra le varie stragi. E poi è importante questo processo perché può trovare una conferma l’esistenza di quelle strutturali collusioni di cui si parla nella sentenza contro Madonia.
In quella sentenza si dice che “il movente, plurimo e articolato, ha comunque alla base la sfida di Cosa nostra alle istituzioni dello stato e in particolare a quegli uomini che manifestavano la precisa volontà di svolgere fino in fondo e senza tentennamenti il proprio ruolo istituzionale di contrasto e repressione nei confronti dell’organizzazione mafiosa, la cui ragione d’essere storica sta nella strutturale collusione con settori importanti dello stato ed in definitiva nella garanzia di poter lucrare comunque attraverso manovre, contatti, alleanze e scambi ‘latu sensu’ politici l’assoluta impunità”.
A suo modo di vedere può essere questo il motivo per cui si parla così poco di questo processo?
Sinceramente temo che il motivo per cui non si parla di questo processo è perché la strage di Pizzolungo viene considerata come una strage di serie C o Z dal mondo dell’informazione. E questo solo per il fatto che a morire non fu un magistrato ma dei cittadini, ovvero mia madre ed i miei fratellini. Questo lo dico con grandissima amarezza e dolore e non è giusto per molteplici aspetti. Non vi è rispetto per il dolore, né il mio o della mia famiglia, né quello del giudice Carlo Palermo che era obiettivo dell’attentato e che, seppur non è stato ucciso fisicamente, è stato profondamente segnato sul piano psicologico e personale. Così come la sua scorta.
La prima volta che ci incontrammo affrontammo il tema della verità mancata e del fatto che forse ci sarebbero dovute passare più generazioni prima che la stessa potesse essere veramente scritta. Io credo che questo ultimo processo potrà portare un tassello in più e sono ben contenta.
Qual è il suo rapporto con Carlo Palermo?
Se nei primi anni, da bambina, mi sono trovata a dare a lui la colpa per quanto era avvenuto, crescendo ho capito che quella responsabilità non poteva essere certo attribuita al giudice Palermo. Purtroppo il dolore che si prova non ti permette sempre di essere lucido nell’analisi. Successivamente, da adulta, quando ci siamo conosciuti ho scoperto la figura di un uomo che è vittima sia a livello professionale che emotivo.
In una lettera, pubblicata nel libro che ho scritto assieme alla giornalista Michela Gargiulo, Palermo scrisse che era “morto nel suo essere sopravvissuto”.
Queste parole testimoniano il suo profondo dolore. Io continuo a sentirlo e a stargli vicino. Mi auguro che grazie a questa vicinanza resa a superare il senso di colpa che prova per quanto avvenuto. Non è colpa sua. E questo lo dico anche con tanta ammirazione per quella che è la sua vita.
Come ricorda sua madre ed i suoi fratellini?
Mamma aveva 31 anni ed era un’insegnante che aveva deciso di dedicarsi alla famiglia a cui poi non hanno permesso di fare quel che aveva scelto. Lei era orfana. A due anni aveva perso sua madre a causa di una malattia. Ricordo che aveva questo sguardo velato che oggi rivedo in alcune mie foto. E’ il dolore della perdita vissuta. Lei per un motivo, io per un altro che mi ha proiettata velocemente nel mondo degli adulti. Un dolore che va affrontato e che cresce se penso ai miei fratellini di appena 6 anni.
Giuseppe e Salvatore erano gemelli ma profondamente diversi. Il primo bruno con i capelli lisci, il secondo biondo con i capelli ricci. Anche caratterialmente erano differenti. Giuseppe, più testardo e puntiglioso. Ricordo che prima di andare a scuola, in prima elementare, lui già voleva leggere, anche poche righe. Lui lo faceva sempre. Salvatore era più estroverso e giocherellone.
Se fossero sopravvissuti cosa immagini che avrebbero fatto?
Sarebbero due uomini di 40 anni. Non so dire cosa avrebbero fatto o quali sarebbero state le loro passioni perché non hanno avuto il tempo di sceglierle. Però guardando al loro carattere potrei immaginare che Giuseppe sarebbe stato un commercialista o un avvocato. Salvatore, più estroso, sarebbe stato un professionista nel mondo dell’arte.
Lei riesce a superare il dolore?
Il tempo trascorre velocemente. Le ferite che si sono create nel 1985 con la morte di mia madre e dei miei fratelli restano e il dolore è ancora uguale. Riesco a convivere di più con questo dolore perché ho trovato la forza, impegnandomi con Libera, per affrontarlo nel quotidiano. E l’aver incontrato tante persone, soprattutto giovani, in questi anni è stato fondamentale.
Ultimamente sia la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) che la Corte costituzionale si sono espresse sull’ergastolo ostativo affermando che anche ai condannati per mafia deve essere riconosciuta la concessione dei permessi premio e che la collaborazione con la giustizia non può essere l’unico vincolo su cui stabilire il criterio. Da familiare vittima di mafia come vede una tale determinazione?
Io ritengo che vi sia un forte rischio di un passo indietro. Io credo nella funzione rieducativa della detenzione e comprendo i principi che hanno mosso l’Europa ma ugualmente credo che vada stabilito un criterio chiaro perché il mafioso non è un criminale comune.
Quando mi chiedono se io posso perdonare rispondo che prima voglio comprendere quello che è accaduto. Voglio sapere perché hanno cercato di uccidere Carlo Palermo e quindi, di riflesso, perché sono morti mia madre ed i miei fratelli. Mi conforta che nelle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale si stabilisce che non è sufficiente la “buona condotta” o la partecipazione al percorso rieducativo, né una semplice dichiarazione di dissociazione.
Cosa direbbe ai tanti ragazzi che si avvicinano a certi temi?
Di non perdere mai la speranza, perché è quella linfa necessaria per andare avanti ogni giorno. Sicuramente c’è da combattere affinché la verità venga scritta, ma non si deve mai perdere la fiducia nelle istituzioni. Non si deve perdere perché altrimenti la si darebbe vinta a quel sistema criminale che attanaglia il nostro Paese. Abbiamo il dovere di pretendere che le nostre istituzioni siano credibili. Forse la mafia non uccide più come un tempo ma con il suo agire colpisce la società e nega i diritti di ognuno di noi. E quindi è necessario che ognuno faccia la propria parte, stando vicini anche a quella magistratura che oggi è tornata ad essere colpita e delegittimata. E non dimentichiamo che ci sono magistrati, uomini delle forze dell’ordine che vanno avanti con impegno, sacrificando anche le loro famiglie, nel tentativo di salvaguardare il bene comune, per lo Stato ed i cittadini.
*fonte Antimafiaduemila.com