Con questo racconto inauguriamo una nuova rubrica con i racconti di Nicola Quagliata. I suoi testi ci riportano indietro nel tempo regalandoci immagini e pensieri di una Sicilia in continuo cambiamento. Buona lettura
Di Nicola Quagliata
La zà Siddra aveva la casa di fianco a quella che i miei genitori tenevano in affitto, di fronte alla edicola votiva della Maculateddra, dove le donne si raccoglievano a maggio per le novene ed i canti dedicati alla vergine Madre, lei a quelle novene non era mai andata, mai l’avevo vista con le altre donne seduta per i canti e le orazioni, ed aveva un grosso albero di noci davanti alla porta che gli faceva sempre ombra, d’inverno e d’estate, ma non faceva nemmeno una noce, ed era sempre verde ed attirava le saette durante i temporali: una di queste saette l’ho vista io, sbattere sul tronco dell’albero e rimbalzare e dirigersi verso la mia porta, passarmi sopra la testa e disperdersi nelle stanze della casa, saettava proprio. Viveva sola, ed il pomeriggio, con la sua matassa di cotone color ruggine ed i ferri contorti di rame per fare le calze, piano piano se ne veniva a casa nostra, mia madre le dava la sedia vicino la porta dove c’era più luce, si sedeva e con la testa china sul mento si metteva a sferruzzare. Era silenziosa. A volte mi chiamava, siediti qua, mi diceva indicando lo sgabello di legno che non so perché tenevamo in casa, “vieni qua che ho una cosa da raccontarti, veni cà chi ti cuntu na cosa chi un t’aiu mai cuntatu”.
A me non dispiaceva ascoltarla, dopo un po’ ero parte del suo racconto, ero dintra lu cuntu, raccontava storie vere, certe volte, quasi sempre cunti antichi, ed a volte li mischiava; mischiava i fatti veri con i fatti dei cunti, e lei aveva così tanti anni che mi aspettavo, da un giorno all’altro, il racconto del diluvio universale e come ne era sopravvissuta.
Correvo a sedermi col gomito sul ginocchio e la guancia sulla mano, la guardavo in viso e lei, senza fretta, con una voce lenta di chi ha molto tempo davanti a sé per raccontare, iniziava, senza perdere di vista il suo lavorio con la calza, anzi non staccandovi proprio gli occhi.
La sua voce sembrava quella della vite di marzo, quando ha perso anche il ricordo delle sue foglie verdi e della succosa uva profumata, del sole e della fresca ombra del pergolato. Perché così era la zà Sidda, secca, asciutta con la pelle attaccata alle ossa, e legnosa come un tralcio di vite staccato dalla pianta, pronto per il fuoco; pensavo che le sue dita spezzate avrebbero fatto lo stesso rumore di quando spezzavo io la vite secca, ed avrebbe cacciato la stessa polvere della vite potata due anni prima, e con due primavere, due estati e due autunni e due inverni, quella polvere caccia la vite potata da due anni quando si spezza. A differenza della vite che non aveva più linfa, o meglio, la cui linfa era diventata polvere, la zà Sidda possedeva tanti cunti quanta linfa poteva avere una giovane vite di grasso lignaggio, i cunti erano la sua linfa fantastica. Ma senza qualcuno seduto davanti a lei che l’ascoltasse quelle storie erano pietrificate come stalattiti cristalline dentro grotte buie senza ingressi.
Raccontava in siciliano. Io non le ho mai sentito pronunciare una sola parola in altra lingua, neppure in italiano, ed il siciliano era la lingua bandita dalla scuola, e le due lingue, il siciliano della zà Sidda e l’italiano della scuola mi facevano vivere in due mondi separati, e che non si parlavano fra di loro, ma a me piaceva il siciliano perché era la lingua dei personaggi e delle storie dei racconti della zà Siddra, personaggi di grande prestigio, perché spesso erano principi e re, ed erano regine e condottieri, e quando erano contadini e popolani, con non più di trenta parole per esprimersi e comunicare, erano destinati a diventare principi, con infinite parole ed articolati ragionamenti. E’ tra queste storie immaginifiche che ho conosciuto la zà Sidda, che per tutti era la zà Sidda, e non c’era nessuno che la chiamasse Sidda, tutti quelli che avrebbero potuto farlo o erano al cimitero tra il paese ed il mare sotto una balata di marmo bianco perlato o erano partiti per terre lontane e non se ne sapeva più nulla.
Aveva un figlio in paese, sposato e con tre figlie femmine e tre doti matrimoniali da approntare se voleva fare dei buoni matrimoni.
Il figlio, la nuora e le nipoti non erano mai venuti a trovarla, le nipoti si può dire che non la conoscevano, se non per sentito dire.
Molti anni prima, quando le nipoti erano ancora bambine, aveva avuto un litigio col figlio e la nuora, nella loro casa, il figlio era diventato tutto rosso e gli si era gonfiato il collo dall’ira, e nella furia le aveva minacciato di metterle le mani addosso e che se lo faceva era perché non la considerava più come madre, e tutto questo mentre il vicinato allarmato dalle urla si era tutto raccolto davanti alla sua porta nel tentativo di placarlo, e davanti al vicinato lui la cacciò dalla sua casa e giurò che non sarebbe più andato a trovarla neppure sul letto di morte e non avrebbe curato il suo funerale,
– Lo giuro davanti a tutti voi che mi siete testimoni, …
E da allora non si erano più rivolti la parola, da quel litigio avvenuto per certe terre e proprietà che la zà Sidda non aveva voluto vendere, compresa la casa dove lei abitava, per risanare certi debiti che il figlio aveva contratto in una sua attività con una cava di marmo.
L’attività al figlio era andata male, il Banco di Sicilia, anche grazie a certe conoscenze a cui non si poteva dire di no e che garantivano per lui, gli aveva anticipato i soldi da investire nella cava, per le attrezzature, il materiale di consumo e la paga degli operai fino alla vendita dei blocchi di marmo. Ma l’impresa era andata male. Invece che blocchi di pregiato marmo di Custonaci, la corda d’acciaio al momento di estrarre i massi, si afflosciava perché la pietra si sfrantumava, al punto da non ricavarne blocchi da più di trenta centimetri cubi, al posto di cinque e sei metri cubi come ci si aspettava. Un fallimento, la pietra era invendibile, ed i soldi alla banca si dovevano restituire.
C’è da dire che da cattivo imprenditore, coi soldi della banca non ci aveva pagato gli operai, se non per frazione di pagamento che dava come anticipo con la promessa che avrebbe liquidato tutto il dovuto con la vendita del marmo. I soldi per pagare gli operai li aveva usati per cambiare la sua 500 fiat con una 1100 fiat e per comprare vestiti nuovi e cappotti alle figlie ed alla moglie e per i regali agli sposi di tre sposalizi dove erano stati invitati e non potavano fare brutte figure, per i tre matrimoni avevano comprato abiti nuovi e pure lui il vestito nuovo.
La zà Sidda non ne aveva voluto sapere nulla, ed il figlio giurò che non sarebbe più andato a trovarla neppure sul letto di morte, e non avrebbe curato nemmeno il suo funerale.
Erano passati più di dieci anni e non si erano più visti e rivolti la parola. Il cuore di Sidda, asciutto come la sua pelle, non ne risentiva, quel figlio era come se non esistesse per lei.
Un pomeriggio mia madre mi disse:
– ma lo sai? È da un po’ di giorni che vedo lu figghiu della zà Sidda circuliarici attornu a la casa, come se la controllasse, sa chi ci passa pi la testa, cosi boni no. A lei non dico nulla, non la voglio allarmare, un ci vogghiu fari pigghiari collira.
Una volta che lo vidi pure io, col viso torvo che mi guardava in cagnesco, ancora più cattivo di quello solito degli abitanti del paese, mi spaventai e corsi a casa, senza dire nulla, e da quel momento evitavo di uscire. Poi un giorno, di primo pomeriggio, non avevo nemmeno cominciato a fare compiti o a leggere, intuii della animazione davanti alla porta dietro la casa della zà Sidda. La casa della zà Sidda era con molte stanze ed aveva due porte, una sulla facciata che dava sulla strada asfaltata, di fianco alla mia, e l’altra dietro, dove pure c’era una stradella percorribile dalle auto. Mi affacciai dalla porta e non vidi nessuno davanti alle altre case, anzi, stranamente tutte le case avevano le porte chiuse, mia madre mi arrivò dietro le spalle dicendomi di chiudere la porta.
Io saltai fuori e mi tirai l’anta della porta dietro, e sentivo mia madre spazientita che mi diceva: dov’è che vai? Torna dentro. Ma lei questo lo diceva sempre e sempre io facevo di testa mia, ed allora mi diceva che avevo la testa dura, ed era un invito ad averla.
Mi agguattai al tronco dell’albero di nespolo che stava a fianco alla casa della zà Sidda, e mi misi in ascolto. Da dietro la casa proveniva un mormorio di voci diverse, mi spostai dove potevo vedere non visto quel che succedeva dietro la casa della Zà Sidda. C’era un’auto bianca come una ambulanza, delle donne vestite di bianco con una certa croce in petto e capii che erano suore di ospedali, e pure uomini massicci vestiti di bianco con copricapo bianco e capii che dovevano essere infermieri, ed uomini con abiti normali; parlottavano tra di loro, facevano ampi gesti con le braccia, mimavano i gesti richiesti per agguantare esseri umani e trascinarli, gesti decisi a salvaguardia delle loro paghe a fine mese, mi sembravano gli accalappiacani, con le stesse facce dure e ciniche. Ad un certo punto si zittirono e si disposero in cerchio davanti la porta, poi il cerchio si apri e si dispose in due lati diritti, uscirono infine due infermiere vestite di bianco e tenevano a braccetto in mezzo a loro due la zà Sidda. La fecero salire sull’auto bianca e sparì. Io non vidi più la zà Sidda e non ne sentii piu parlare. La sua casa fu venduta, ma nessuno ci venne ad abitare.