Il 1988, l’anno in cui Cosa nostra si tolse le spine. L’Anm dedica un pensiero al magistrato Alberto Giacomelli ucciso dalla mafia il 14 Settembre del 1988. Ma il mese di settembre tra il 1988 e il 1992 resta segnato dal sangue delle vittime innocenti
Quelli del 1988 furono giorni pregni di sangue dei morti ammazzati dalla mafia. Nomi e numeri sempre eclatanti, però io quel 1988 me lo ricordo molto bene. Le vittime di quei barbari delitti, compiuti in quell’anno secondo una terribile sequenza, sono ancora qui, davanti a noi, a chiederci verità e giustizia, ma non solo. Vicende giudiziarie attuali ci dicono che quei morti non fanno parte della storia, ma sono argomenti da dover continuare a inserire nella cronaca quotidiana. Cominciando dall’ex sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco, uomo politico ma che sarebbe stato cerniera tra l’intelligence, avrebbe fatto parte della struttura di Gladio, e gli ambienti della mala politica, la massoneria. Non era uno che cercava inciuci ma puntava a denunciare, e in quel 1988 tra i nomi dei politici corrotti spuntò, indicato da Insalaco, l’allora potente politico della Dc trapanese, Francesco Canino. Quasi 10 anni prima del suo arresto- Morto proprio mentre il Tribunale pronunciava la sua condanna per mafia. Ciò nonostante ancora oggi a nome suo girano alcuni politici e sindaci, pronti a celebrarne la grandezza, con una buona, bisogna dire faccia tosta. Due giorni dopo il delitto di Insalaco, la mafia sempre a Palermo uccide l’agente Natale Mondo. A Trapani c’è chi lo ricorda, sempre appresso al capo della Squadra Mobile Ninni Cassarà. C’era anche Mondo con Cassarà il giorno in cui a Palermo fu ucciso il bravo investigatore che lasciando Trapani e tornato a Palermo contribuì a far gettare le basi del maxi processo istruito dai giudici Falcone e Borsellino. Natale Mondo scampò al piombo dei killer che nel mentre uccidevano Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Ma dovette paradossalmente quasi rimpiangere di non essere stato ammazzato. Finì nel tritacarne di chi lo incluse nella lista delle possibili talpe che avevano avvertito la mafia che dopo giorni e giorni di stare chiuso in ufficio, Cassarà si apprestava a tornare a casa. Mondo finì dimenticato, tornò a Trapani, lo misero a fare il centralinista. La Polizia dimenticò le capacità di quel suo poliziotto, la mafia però nel gennaio del 1988 si ricordava ancora di lui e lo ammazzò. In Sicilia il capitolo delle collusioni pericolose tra investigatori e la mafia resta aperto, come aperto il capitolo dei poliziotti che alla mafia non le mandavano a dire ma spesso si ritrovavano isolati o peggio ancora “mascariati”.. Tutto questo per arrivare a settembre, al 14 settembre del 1988. Il delitto di un magistrato in pensione, il giudice Alberto Giacomelli. Giorni cruenti abbiamo scritto, lo hanno confermato alcuni collaboratori di giustizia. Quel macellaio sanguinario di Totò Riina che cercava di mandare segnali di morte dopo le condanne del primo maxi processo. “Bisognava ammazzare i giudici per mandare segnali”, e a Trapani i mafiosi scelsero Giacomelli la cui colpa era stata quella di confiscare, molti anni prima la casa di Mazara di proprietà del fratello del corleonese Totò u curtu. Per arrivare alla verità dell’omicidio sono occorsi anni, perché nel frattempo Cosa nostra si adoperò per depistare, quasi quasi andò a consegnare gli autori del delitto a chi indagava, sapendo già che non essendo loro sarebbero stati assolti, come accadde, ma nel frattempo gli investigatori non si preoccupavano ancora di andare a cercare gli autori del delitto, per loro il caso era chiuso e anche in malo modo per via delle chiacchere infamanti messe in giro sul giudice ucciso. Oggi la sottosezione di Trapani dell’Anm ha diffuso un documento: “Il 14 settembre del 1988 veniva ucciso a Trapani il giudice Alberto Giacomelli, che da più di un anno era andato in pensione dopo avere ricoperto, fra gli altri, l’incarico di Presidente del Collegio delle misure di prevenzione del Tribunale di Trapani. Per anni, l’omicidio di Alberto Giacomelli è rimasto un “delitto senza memoria”, colpevolmente dimenticato perché non suscitava lo stesso clamore di altre, ben più note vicende di mafia. L’ANM- sottosezione di Trapani- nel ricordare con forza l’assassinio del collega Alberto Giacomelli, vuole sottolinearne il profilo di uomo coraggioso ed, al contempo, di persona defilata, silenziosa, sobria. Valori che, ancora oggi, costituiscono uno stimolo per l’attività di ogni singolo Magistrato ed un esempio per tutta la società civile”. Ci sono voluti anni per dedicare un luogo al giudice Giacomelli, alla fine fu individuata la piazzetta limitrofa al Palazzo di Giustizia. Quel giorno il clamore fu grande, sulla targa si trovò scritto che Alberto Giacomelli fu vittima della criminalità organizzata, ci volle qualche altro giorno per vedere scritto che quel giudice era stato ammazzato dalla mafia. Undici giorni dopo a Caltanissetta toccò ad un altro giudice, Antonino Saetta, ucciso col figlio, l’indomani 26 settembre ancora Trapani, ancora un delitto eccellente, destinato a vedere sorgere attorno a se inquietudini, depistaggi, falsità, bugie, per celare la verità. Stiamo scrivendo del giornalista e sociologo Mauro Rostagno, voleva mettere sotto terapia una città cieca e addormentata, convinta di vivere momenti esaltanti. Fu ammazzato perché lui gli amici se li andava a cercare per davvero ma erano gli amici con i quali discutere e parlare e non fare intrallazzi. Pensava che anche tra le sue fonti ci fossero veri amici, ma in mezzo a loro c’era anche un “Giuda”, in tante indagini di mafia o nei fatti della vita si scopre sempre un “Giuda”, ma quello lì era particolare, avrebbe potuto aiutare a far venire fuori la realtà subito e invece…
E invece avrebbe fatto parte della schiera di quei “cani attaccati” che la mafia trapanese pubblicamente sosteneva di potere avere nel mondo di chi faceva le indagini. E quando chi fa le indagini le fa bene spesso in Sicilia finiva ammazzato e oggi magari delegittimato. Era sempre il 14 settembre ma del 1992. Anni di altre spine che Totò Riina voleva togliersi dopo che la condanna del maxi processo era diventata definitiva. Il 1992 fu l’anno delle stragi, a settembre a Mazara doveva essere ucciso il commissario Rino Germanà, uno che aveva fatto carriera all’inverso, che si ritrovò a giugno 1992 a fare il commissario quando la carriera lo aveva portato ad essere vice questore. Fu mandato a Mazara e messo sulla strada di tre pericolosi killer di mafia, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Ora ci dicono che non è possibile definirli pezzi di m…, pur facendo parte della montagna di merda tale è riconosciuta essere Cosa nostra, perché si fa reato, ma si fa peccato a non esternare il proprio pensiero. Definirli cattivoni è cosa da Banda Bassotti, ma loro non erano tali, indichiamoli per quello che sono, dei capi mafia sanguinari. Ma chi restò di merda quel 14 settembre 1992, mentre Germanà riusciva a scampare al piombo mafioso, furono certamente Riina e Messina Denaro. Avete letto, la merda alla fine c’è sempre quando si parla di mafia.