Quel nome del boss depennato

26 Settembre 1988, l’omicidio mafioso del sociologo e giornalista Mauro Rostagno

Quando si ricorda il nome di Mauro Rostagno, e spesso lo si fa, purtroppo, solo nel giorno del triste anniversario della sua uccisione, 26 settembre, lo si presenta ai lettori, a chi ascolta, come sociologo e giornalista. Quasi nel volere insistere, ma non chi scrive, nel fare ricercare il movente del suo omicidio non solo nell’attività giornalistica, che lui aveva ripreso arrivando a Trapani, era stato direttore del giornale Lotta Continua, ma anche in altri contesti, in altri ambienti. L’impegno da sociologo nella comunità di recupero per tossicodipendenti Saman per esempio. Ma la verità è quella che Mauro Rostagno usando la sua professionalità, di sociologo e giornalista, per quello che emerge dalla mole di documentazione giudiziaria raccolta sul suo omicidio, nella terra trapanese aveva raccolto tutte le sue forze per colpire l’associazione mafiosa, da sociologo e da giornalista, assieme. Lo dico sempre, io non ho conosciuto Mauro Rostagno, solo un paio di incontri veloci, di pochi istanti, dentro le stanze di Rtc, la tv privata che dirigeva senza tessera, e quindi mi tiro fuori dalla fiera delle vanità che puntualmente ad ogni 26 settembre sorge da più parti. Rostagno l’ho conosciuto attraverso gli atti d’inchiesta, taluni contraddittori, sulla sua morte, gli atti processuali. Così come allo stesso modo ho conosciuto altre vittime della strategia mafiosa di attacco alle istituzioni e contro chi poteva costituire per essa stessa un pericolo. Leggendo pagine e pagine di rapporti, resoconti, testimonianze. La storia del delitto m a f i o s o di Mauro Rostagno è una storia di morte come tante altre. Ci sono trame color rosso sangue che attraversano moltissimi omicidi. Ma non scrivo questo per banalizzare, una storia come tante altre non è banalizzare ma semmai il contrario, evidenziare cioè come Cosa nostra negli anni, dal secolo scorso ad oggi, quel 1988 appartiene al secolo passato, ha sempre usato identico comportamento. Dapprima isola le sue vittime, poi le ammazza e poi “mascaria”, sporca il ricordo dell’ucciso e infine depista. Certamente tutto questo non l’ha mai fatto da sola, ma con complicità anche di persone dello Stato che amano stare dall’altra parte della barricata. Sono trascorsi 32 anni, a cavallo tra due secoli, da quando Cosa nostra uccise Mauro Rostagno. Era sera quel 26 settembre quando lui alla guida della sua auto, una Fiat Duna di colore bianco, era quasi giunto a Lenzi, nelle campagne di Valderice, dove aveva sede la comunità Saman. Lì lui abitava. Tornava dalla sede di Rtc. Con lui c’era una ragazza, Monica Serra, era una ospite della comunità, una ragazza che faceva parte della squadra di giovani cronisti che Rostagno aveva messo in piedi e che ogni giorno giravano le città, portando in tv tutto quello che serviva per confezionare una edizione del telegiornale. I sicari lo aspettavano fermi nel punto più buio di quella stretta strada di campagna, Rostagno deve averli visti, certo non vide che erano armati, rallentò a tal punto di ingranare la prima pronto a riprendere il cammino. Non ne ebbe il tempo perché le armi cominciarono a sparare. Disse a Monica, così lei stessa ha ricordato, di abbassarsi nel fondo dell’auto, per ripararla dai colpi, e Monica che sedeva sul sedile del passeggero si rannicchiò, per poi uscire fuori e chiedere aiuto quando non sentì più le armi sparare e vedere il capo di Rostagno chino su di un lato. Ecco questa la scena dell’omicidio. E sembra essere la scena di altri omicidi. La stretta stradina, lo si può vedere ancora oggi, non attraversa una zona di campagna disabitata, ai lati della strada ci sono abitazioni, nessuno di coloro i quali quella sera era nelle propria casa ha sentito quegli spari. La stessa cosa che il 25 gennaio del 1983 accadde quando a Valderice, a notte fonda, fu ammazzato dalla mafia il magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto. La stessa cosa che avvenne il 2 aprile 1985 quando Cosa nostra con un’autobomba tentò di uccidere il pm Carlo Palermo e il tritolo fece strazio di una mamma, Barbara Rizzo, e dei suoi figli gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe Asta. Nessuno ha visto e o sentito. Nessuno per Ciaccio Montalto e Rostagno ha udito i colpi di mitraglietta e di lupara, nessuno ha visto scappare via dalla strada sventrata dal tritolo l’auto con il commando che aveva agito. L’ho fatta breve, perché gli esempi potrebbero continuare, ecco cosa significa “una stessa storia di morte”. Ciaccio Montalto, Rostagno, Pizzolungo, Giacomelli, un altro giudice ucciso da Cosa nostra, come altri morti vittime di Cosa nostra siciliana, non solo hanno analogie tipiche nel delitti di mafia, ma anche nell’evolversi processuale. Anni e anni di indagini, arresti, condanne e poi assoluzioni, quando non arrivano subito i proscioglimenti, e poi i processi lunghi, lunghissimi, avviati anche a 10 e più anni di distanza dai fatti. E ancora depistaggi, falsi pentiti e falsi testimoni. False piste. La morte violenta e barbara di Mauro Rostagno non è sfuggita a questo scenario, terribile quanto lo stesso omicidio. Puntuale in tutti i delitti la stessa domanda, fatta circolare da subito, senza nemmeno aspettare il funerale della vittima: siamo sicuri che è stata la mafia? Domande sollevate ad arte, e non solo da parte dei responsabili ma anche da parte di chi per un motivo o per un altro si era ritrovato in vita la vittima come proprio oppositore. Nel delitto Rostagno a insinuare dubbi fu certo Cosa nostra ma anche certa politica, quella contro la quale Rostagno si poneva, da giornalista, denunciando i mali della città di Trapani. La sera che Rostagno fu ucciso a Trapani era riunito il Consiglio comunale, la notizia dell’omicidio arrivò in aula, ma la seduta non fu sospesa. Cosa c’entrava, questo il sentire di certuni, quell’uomo di 46 anni, che parlava alla gente con la tipica inflessione dialettale del nord, che era solito vestire di bianco ed occuparsi di tossicodipendenti, con la terra trapanese. Cosa c’entrava la mafia col suo delitto se poi dentro la sua borsa erano stati ritrovati dei dollari, cosa c’entrava la mafia con quel delitto se l’amante che Rostagno aveva era la compagna di un generale dei servizi segreti. Cosa c’entrava quel delitto con il giornalismo se altri giornalisti, più di lui, ogni giorno erano impegnati a scrivere le malefatte della mafia, e mai erano stati toccati o minacciati. Bugie, invidie, d e p i s t a g g i. La foto più vera di Mauro Rostagno l’ha indicata la figlia Maddalena, giovanissima quando le uccisero il padre: “mio padre – ha detto durante il processo in Corte di Assise a Trapani – voleva fare il terapeuta di questa città”. Fare il terapeuta significava far prendere coscienza ai trapanesi che non abitavano in un oasi di pace, che la politica era animata dalle corruzioni, che l’incertezza non poteva essere la caratteristica del loro vivere quotidiano, che stare in mezzo alla munnizza non era una cosa normale, e che non erano morti inevitabili quelle di alcuni giovani uccisi dalle overdose di eroina. Faceva il terapeuta per far prendere coscienza che con la mafia non bisognava convivere ma bisognava semmai isolarla, per farla colpire giudiziariamente. Anni dopo quel delitto, altre indagini, racconteranno che in quel 1988 Cosa nostra trapanese cambiava pelle, diventava ciò che sarebbe stato maggiormente negli anni ’90, una associazione imprenditoriale, che investiva nelle speculazioni edilizie i soldi guadagnati con i traffici di droga, capace di controllare i grandi appalti. Cosa nostra è riuscita oggi a gestire grandi liquidità nei tempi di crisi, oggi , diciamolo chiaramente, è pronta a intercettare i fondi europei che arriveranno per far ripartire il Paese dopo la grave crisi epidemiologica. Non sarebbe stato tutto questo oggi Cosa nostra se le sue vittime fossero rimaste in vita, se bravi investigatori non fossero stati disarmati prima e trasferiti dopo. Il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno oggi è fermo in Cassazione. In primo grado gli unici due imputati, i conclamati mafiosi Vincenzo Virga, capo della famiglia e del mandamento di Trapani, e Vito Mazzara, il killer di fiducia di Cosa nostra trapanese, sono stati condannati all’ergastolo. In appello condanna confermata solo per Virga, assoluzione per Mazzara. Il 27 novembre prossimo in Cassazione è prevista la discussione sui due distinti appelli presentati dalla Procura generale di Palermo, contro l’assoluzione di Mazzara, e dalla difesa di Virga, contro la condanna all’ergastolo. Oltre 20 anni sono serviti per arrivare al processo di primo grado. Quando il movente di quel delitto era a portata di mano. Mauro Rostagno fu ucciso per avere attaccato frontalmente il boss di Mazara, Mariano Agate, che dall’aula di un Tribunale quasi pubblicamente lo invitò a tacere, per i suoi servizi giornalistici e di approfondimento sul fenomeno mafioso. Fu ucciso per quello si stava preparando a dire. Agli atti del processo di primo grado è entrato un faldone di documenti, alcuni appunti vergati a mano da Rostagno, il menabò di una trasmissione che stava allestendo, c’era già la sigla pronta, “Avana” il titolo, la colonna sonora quella di una canzone di Paolo Conte, “Anni”. Anni per scoprire la verità. Così forse questo voleva scrivere Rostagno, per scrollare la società civile trapanese, ci vogliono anni per scoprire le cose. Non immaginava certo che questa sarebbe stata la sorte che avrebbe riguardato la sua morte. Ecco in quelle carte c’è un foglio con scritti tanti nomi, anche di mafiosi. Uno di questi nomi però una volta scritto è stato depennato. Quello del capo mafia di Trapani, Totò Minore. Nel 1988 era considerato il capo della mafia trapanese, latitante. Le indagini sulla mafia trapanese che all’epoca erano in corso, portavano sempre al suo nome. Ma solo nel 1993 si saprà, dai primi collaboratori di giustizia, che Totò Minore era stato ucciso nel novembre del 1982, strangolato dopo aver cenato con Totò Riina. Se Rostagno fosse riuscito a dire in diretta tv in quel 1988 che colui il quale era considerato il capo della mafia trapanese in verità era morto da sei anni, non sarebbe stata una cosa indolore per Cosa nostra. Significava indicare l’esistenza di un successore, Vincenzo Virga, che all’epoca entrava ed usciva dai salotti della politica, significava far scoprire anche nel mondo della giustizia e delle indagini, certe connivenze, insomma uno scoop giornalistico in grado di mettere a nudo quella che era la nuova essenza della mafia trapanese, il dominio dei clan vicino ai Corleone, da quelli trapanesi controllati da Virga, a quelli di Castelvetrano capeggiati da don Ciccio Messina Denaro. In quegli appunti scritti da Rostagno ricorre più volte Castelvetrano, è segnata la presenza di un ministro dell’epoca, Vittorino Colombo, c’è un appunto sulla presenza a Trapani dei cavalieri del lavoro di Catania, e la protezione mafiosa garantita per i lavori di una diga, quella realizzata nelle campagne di Trapani, il cosiddetto lago Bajata. Bastava andare a leggere questi appunti per capire, invece di inseguire altra fantomatiche piste o far passare per mostro la sua compagna, arrestata perché accusata di aver fatto da complice agli assassini, assassini che furono dipinti come dei balordi. La mafia iniziò la sua opera di depistaggio già mentre faceva uccidere Mauro Rostagno. Usando un fucile che esplode durante il delitto. Quasi a voler rappresentare che ad agire non erano stati dei killer professionisti. E durante il processo di primo grado, durato poco più di tre anni, ci furono dei carabinieri che vennero a dire che questa poteva essere la realtà, perpetuando il tentativo di contraddire le indagini che avevano portato alla sbarra due mafiosi importanti di Cosa nostra trapanese. Carabinieri che avevano perduto dei verbali dove Rostagno riferiva sulle sue ricerche giornalistiche attorno alla massoneria trapanese e che avevano dimenticato di confrontare le tracce balistiche di quel delitto contro altri omicidi. Quando i giudici di primo grado pronunziarono nel maggio 2014 la sentenza di condanna, indicarono alla Procura una decina di falsi testimoni. All’epoca il nostro codice penale non comprendeva il reato di depistaggio, intervenuto successivamente, una modifica sostenuta dal deputato Pd Davide Mattiello che quel processo aveva seguito da molto vicino. Se ci fosse stato il reato di depistaggio, per qualcuno dei testi bugiardi l’accusa sarebbe stata questa. Oggi questo processo “per false testimonianze” è in corso, la prescrizione per i depistatori è a portata di mano.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.