Rostagno, una sentenza a metà

Condannato il mandante mafioso assolto il killer. La Cassazione ha così chiuso il caso, ma si spera che la società civile riesca a colmare il buco nella verità consegnata dai giudici

Un altro giornalista ammazzato dalla mafia ma non si sa da chi. Mauro Rostagno fu vittima della potente mafia trapanese, il suo omicidio risale al 26 settembre 1988, e oggi pomeriggio la Cassazione ha messo il sigillo finale. Condannato all’ergastolo il capo della “famiglia” di Trapani Vincenzo Virga. Colpevole! Per lui un altro ergastolo dopo quello per la strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985. Cosa nostra volle fortemente quel delitto, Rostagno era certamente un “giornalista-giornalista”, schiena dritta, era per questo una “camurria”, una seccatura, per don Ciccio Messina Denaro, il padrino del Belìce, alleato con il corleonese Totò Riina già da prima che questi divenisse il capo dei capi. E don Ciccio diede l’ordine di ucciderlo passeggiando con i suoi fidati passeggiando nel mezzo di un suo agrumeto. Il volere del padrino di Castelvetrano arrivò così al capo della mafia trapanese Vincenzo Virga, il boss, che all’epoca era sconosciuto in quanto tale a chi investigava, lo fece eseguire. Per i magistrati e gli investigatori il killer fu il “sicario” di fiducia di Cosa nostra trapanese, Vito Mazzara, uno che all’epoca era componente della squadra di tiro a volo della nazionale italiana. Girava in auto portandosi il fucile, “se mi fermano – riferì un pentito che era solito stare con lui – dico che sto andando ad esercitarmi”, ma lui provava la sua bravura e scaltrezza nell’uso del fucile andando ad “ammazzare cristiani (persone)”. Anche i giudici di primo grado ritennero Mazzara colpevole, come avevano sostenuto i pm Gaetano Paci e Francesco Del Bene. Contro Mazzara anche le impronte lasciate dal suo Dna sulla canna del fucile trovato sul luogo del delitto, una perizia che i giudici fecero fare quasi alla fine del processo. Mazzara non si sottrasse, ma sollecitato non ha mai risposto alle domande. Come Virga, il silenzio per i mafiosi è la prima cosa, non aprire bocca nemmeno per negare. I giudici ebbero anche tra le mani i verbali dei pentiti e certe intercettazioni dove i mafiosi dicevano di lui che “era un pezzo di storia e andava protetto e aiutato ora che si trovava in carcere”. Proteggerlo per non farlo pentire, sarebbe stata una devastazione per Cosa nostra che addirittura pensava di organizzare la sua evasione dal carcere utilizzando un elicottero. Giudizio di colpevolezza però ribaltato in appello. Virga condannato ma Mazzara assolto, prove balistiche e Dna vennero ritenute insufficienti a provare l’accusa. Oggi in Cassazione il sostituto della Procura Generale Gianluigi Pratola ha chiesto la conferma della condanna per Virga e l’annullamento dell’assoluzione per Mazzara, chiedendo per questi un nuovo processo di appello. Stessa cosa sostenuta dalle parti civili, tra queste, assieme ai familiari di Rostagno, l’Ordine dei Giornalisti, l’Associazione siciliana della Stampa e l’associazione Libera. Ma i giudici della massima corte hanno ritenuto di non dare loro ascolto. Sentenza di appello confermata di netto. Mazzara resta in carcere a scontare altri ergastoli, ma per i giudici lui non sparò a Mauro Rostagno. La monumentale sentenza scritta dai giudici di primo grado, presidente giudice Angelo Pellino, a latere giudice Samuele Corso, tremila pagine, non ha retto sulla responsabilità dell’imputato Mazzara, ma dal giudizio finale esce confermata nel suo vasto contenuto. resta la “Treccani” che racconta la storia della mafia trapanese. Quella che da decenni governa l’economia, che ha creato la cultura mafiosa, che ha trasformato in legale il sistema illegale. Rostagno fu ucciso dalla mafia, Cosa nostra capace poi di far mischiare le carte, intorbidire ogni cosa, per anni e anni mandanti e killer vennero cercati in ambienti lontani e distinti da Cosa nostra. La mafia era già quasi riuscita a mandare in archivio l’indagine, facendo restare il delitto senza colpevoli. Nel 2009 però l’inchiesta dai carabinieri passò alla Polizia, alla Squadra Mobile allora diretta dall’attuale direttore del Sca (Servizio centrale anticrimine del Viminale) Giuseppe Linares. E lui la riprese sa dove l’aveva dovuta lasciare nel 1988 il suo predecessore, Rino Germanà. E così si trovarono i riscontri balistici, mai cercati prima, si tornarono a sentire i collaboratori di giustizia che fino ad allora nessuno aveva interpellato, e si scoprì che Rostagno aveva messo la sua attenzione giornalistica sugli affari della nuova mafia. Da poco tempo Mauro Rostagno era arrivato a Trapani, conosceva la Sicilia per essere stato negli anni ’70 il leader di Lotta Continua a Palermo e lì fu tra i primi ad avere l’intuizione su chi fosse per esempio l’avvocato Vito Guarrasi, originario di Alcamo. Guarrasi, l’eminenza grigia della mafia siciliana. A Trapani Mauro Rostagno, arrivato per occuparsi della comunità di recupero anche da lui fondata, la Saman, assieme alla sua nuova compagna Chicca Roveri (finita poi addirittura sotto inchiesta per la morte del suo compagno, arrestata e poi prosciolta), riscoprì l’amore per il giornalismo, lui uno di quelli ai quali il tesserino dell’Ordine è stato consegnato dopo la morte. Si occupò di una tv, Rtc, il notiziario con lui divenne quello di punta della provincia. Partì dai territori maltrattati, dai politici corrotti, dai ragazzi morti per droga e dallo spaccio nei rioni, per alzare ogni giorno di più l’attenzione sul perché nella terra trapanese non cambiava nulla, arrivando a Cosa nostra e alla massoneria. La gente lo ascoltava, e lo apprezzava, ma qualcuno diceva anche “a questo un giorno l’ammazzano”. A Trapani prima di quel 1988 avevano già ucciso un magistrato, Ciaccio Montalto nel 1983, tentarono di ucciderne un altro, Carlo Palermo nel 1985, ma l’autobomba preparata per lui fece strazio di una mamma, Barbara Rizzo, 30 anni, mentre accompagnava a scuola i suoi gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta, di sei anni. C’erano e continuavano guerre e faide, ma i sindaci negavano l’esistenza della mafia. Rostagno no. Anzi era andato avanti, aveva capito chi era a comandare, era giunto a un punto dove nemmeno chi indagava era giunto. E aveva messo gli occhi sulla massoneria, quella più segreta che faceva inciuci e intrecci con Cosa nostra e giorno dopo giorno faceva crescere quella che ancora oggi esiste e che si indica come l'”area grigia” di Cosa nostra. Era andato troppo avanti ed era troppo solo, perché chi lo ascoltava poi uscito da casa continuava a favorire l’andazzo di sempre, ai trapanesi è sempre piaciuto sopravvivere, Rostagno cercava invece di insegnare loro il piacere di vivere. “Mio padre – disse la figlia Maddalena sentita nel processo a Trapani, cominciato 23 anni dopo il delitto – voleva fare il terapeuta di questa città”, ma la città consegnò il terapeuta ai killer di mafia. Lo ammazzarono la sera del 26 settembre 1988 mentre rientrava nella sua casa, dentro la Saman, lo aspettarono i killer in una stradina di campagna, a Lenzi, in territorio di Valderice, a un tiro di schioppo dalla casa del mandante Virga e del sicario Mazzara…assolto ora dalla Cassazione però. A Trapani in quel 1988 Cosa nostra si trasformava in impresa, metteva suoi uomini a sedere nei palazzi della politica e delle istituzioni, usava bene le banche per riciclare denaro, ma in particolare Cosa nostra per ordine di Riina era diventata un’unica cosa con la massoneria. Trapani era territorio fertile per i servizi segreti, per i traffici proibiti finanziati dai Governi, c’era presente Gladio. Ma non c’erano comparti separati, mafia e poteri forti e occulti ieri come oggi restano una cosa sola. Rostagno per i mafiosi era un avversario da abbattere, perché era in grado di scoperchiare certe pentole. Oggi si parla parecchio di “massomafia”, nelle pagine della sentenza scritta dai giudici della Corte di Assise di Trapani c’è un ricco compendio di riscontri. Solo che tutto quello che Rostagno aveva avuto certa percezione, ufficialmente nelle aule di giustizia l’esistenza di questo scenario verrà provata quasi dieci anni dopo quel delitto. E oggi lo scenario non è diverso. Solo che in pochi lo raccontano, chi indaga trova sempre un ostacolo da aggirare e spesso non è cosa facile, ma tra chi indaga e giudica spesso si cela chi sta dall’altra parte. O se non sta dall’altra parte, sostiene il quieto vivere. Proprio come accadeva in quel 1988. Potente è la mafia a Trapani, ma non tanto perché a comandare è il latitante Matteo Messina Denaro, ma perché ancora qui si annidano intrecci e connessioni, c’è una minoranza che riesce a condizionare la vita della maggioranza. C’è chi detiene le chiavi di certe casseforti che frattanto sono finite nelle più importanti city finanziarie d’Europa, lontano dai cacciatori dei patrimoni mafiosi e al riparo dalle norme su riciclaggio e antiriciclaggio. Il movente del delitto Rostagno è rimasto per oltre 20 anni a disposizione di chi indagava, bastava leggere i suoi editoriali o cercare tra le sue carte spuntate all’improvviso durante il processo di primo grado. E invece si è cercato altrove, sempre lontano dalla verità. I magistrati sono stati anche traditi da chi indagava. Certi carabinieri nascosero anche alcuni verbali dove era possibile leggere quello che Rostagno incontrando alcuni massoni aveva scoperto. Per non parlare poi di noi giornalisti, sempre qualcuno pronto a dire che in fin dei conti Rostagno non faceva qualcosa di diverso dagli altri giornalisti. Insomma ucciso per altro, non perché informava, ed è venuto fuori di tutto, anche la storia di dollari che i carabinieri la sera del delitto trovarono, così dissero, nella sua borsa. Bugia, con tante altre bugie. La storia di Rostagno sembra essere una storia di morte come tante altre. Ma scriviamo così non per banalizzare ma semmai per evidenziare che si può scrivere Rostagno, leggendo pure altre nomi, Spampinato, Francese, De Mauro, Siani. La strategia è stata sempre uguale. Impedire di far raccontare la verità. Ieri, possiamo dire nel secolo scorso, i giornalisti li ammazzavano, oggi scatta la delegittimazione, le querele temerarie, le denunce penali, così per caricare il giornalista di altri pensieri, quelli per potersi difendere e non attaccare. Le più recenti indagini su Trapani dimostrano come Cosa nostra mantiene vitalità avendo gli uomini giusti al posto giusto, ci raccontano di politici che continuano a non rispettare la distanza di sicurezza dai mafiosi, ci indicano la massoneria come via da seguirsi per vedere risolti certi problemi, come anche il potere ottenere una pensione da invalido civile, ci dicono che mafia e corruzione sono faccia della stessa medaglia e che droga e usura sono gli affari quotidiani, quasi quelli più spicci, dei boss. Ma la realtà è quella che le generazioni che sono state protagoniste di quegli anni ’80, quelle che dicevano e si sentivano dire “la mafia non esiste”, oramai sono state sostituite da altre generazioni verso le quali è passato il messaggio che la mafia è stata sconfitta. E quindi sono indotti a non conoscere il passato. I giovani di oggi non conoscono le storie delle vittime delle mafie, provate a chiedere di Rostagno nelle scuole trapanesi se non anche in altre scuole d’Italia. I giovani sanno di Falcone e Borsellino ma è solo una conoscenza percepita per quello che compare sui social. L’anno è diverso, addirittura è diverso il secolo, ma a Trapani la mafia resiste, si è perfezionata, può festeggiare una assoluzione, può entrare ed uscire dai Tribunali non per essere condannata ma semmai per discutere o spiare un magistrato o un giudice, nelle fondamenta resta tale e quale a quella che era negli anni ’80,  una mafia che sa votare bene quando è ora di votare e che sa sparare bene quando è ora di sparare. Per questo la sentenza della Cassazione non ci piace, perché è una sentenza a metà. Ma non ci si deve scoraggiare. C’è un buco in questa verità che la società civile può colmare. La Giustizia ci ha consegnato il mandante, mafioso, ma non il killer e se non abbiamo il sicario non abbiamo gli addentellati, ancora una volta è accaduto quello che accade sempre. Per avere la verità in questo Paese dobbiamo come scipparla, sottrarla, e quando ci riusciamo succede sempre che c’è una verità che non possiamo avere per intero. Ma almeno da oggi pomeriggio nessuno potrà dire che Rostagno non fu ucciso dalla mafia e che a Trapani la mafia non esiste. E che si può ripartire, da quello che intanto di certo finalmente c’è stato detto.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.