I racconti di Nicola Quagliata
Eu Pirriaturi
Scalpellino e sbozzatore
Scalpellino e sbozzatore, oltre ad essere due differenti qualifiche professionali, prevedono un diverso approccio coi massi di pietra, ed una diversa fatica ed impegno muscolare. Io le ho affrontate da picciutteddru nelle pirrere. Sono stato impegnato nell’intero ciclo della estrazione del marmo, che era complesso e delicato, fino al caricamento sul camion che lo portava in segheria.
Non so ancora se valutare quel mio impegno nelle cave di marmo come “la mosca col bue” che arava la terra. La mosca si era posata su un corno di un bue che arava la terra, e quando un’ape di passaggio le chiese cosa facesse, la mosca rispose: non vedi? Aro la terra! In parte così ero io, un osservatore, condotto nelle cave da chi ci lavorava, ero in parte osservatore in parte partecipe, la partecipazione integrava la mia attività interiore di osservatore.
Intanto devo dire che si trattava del marmo bianco perlato di Custonaci, il marmo più duro in natura.
Ed ho lavorato anche nella pirrera del marmo rosso di Monte Inici.
Chi arriva alla sommità del monte Inici vede le cave abbandonate da decenni. Le piogge e la neve le hanno in parte riempite di terra rossa. In quelle pirrere, al freddo dell’inverno, ci ho lavorato come manovale, ripulivo e liberavo della terra i massi prima che venissero aggrediti dai cavatori per la estrazione, dentro ad un cielo limpido d’azzurro. In lontananza tra macchie verdi, fratta ingiallita e giovani pini ancora esili, saettavano lepri e conigli, guardinghi e diffidenti, e nell’aria poiane giravano lente in tondo, attente a scattiare all’occasione, li carmusci erano la preda prediletta di falchi e puddricinari. Poi una legge ha vietato le cave sulla montagna di Inici, ma nel divieto ancora continuammo di contrabbando ad estrarre marmo rosso, il marmo rosso di monte Inici.
Questa cosa del contrabbando mi entusiasmava, rendeva romantici il piccone, la pala e la carriola, la stanchezza ed il freddo, e i denti che battevano irrefrenabili e rumorosi che venivano interrotti solo dalle risate. Avevo una grande capacità di ridere. La fase più delicata era il trasporto dei blocchi di marmo, che non doveva essere intercettato dalla polizia, pena il sequestro del marmo e guai con la giustizia.
Scortavamo il camion. Uno con la lambretta, con me sopra, precedeva il carico e gli indicava la strada libera. La lavorazione del marmo rosso di contrabbando si fece complicata e si tornò al marmo bianco, al bianco perlato di Custonaci. Da allora le pirrere di Inici sono chiuse ed abbandonate.
A Custonaci si andava per le colline della Beddra Zita, di Bella Nova, di Sciammaria, e sul monte Sparacio, con la mazzetta d’acciaio, e si tastava la pietra che emergeva dalla terra, tra le macchie di camarruni, di rovi, di alivastro e sparascina.
Si batteva la pietra sulla superficie della terra e dal suono si doveva capire la grandezza del blocco di pietra o l’estensione e la profondità del filone. Io avevo una sensibilità particolari dell’udito; capivo quel che il suono della mazzetta sulla pietra diceva, e la mazzetta d’acciaio mi diceva quanto era grande il blocco di marmo sotto di noi, e quanto era esteso, ed in che direzione si estendeva. Nessuno se ne accorgeva o ci faceva caso, ma ogni volta che si batteva la pietra io mi toglievo le scarpe, mi mettevo coi piedi nudi sulla terra, e questo mi permetteva di sentire le vibrazioni della pietra sottoterra. Io avevo imparato a leggere le vibrazioni che la pietra mandava al suolo tutto intorno. E poi subentrava il calcolo delle probabilità, che consisteva su quante volte ogni dieci potevo centrare la risposta, ed il fatto che i pirriatura del paese erano tutti contadini analfabeti che si erano messi a cercare la pietra, mentre io andavo a scuola, mi metteva in una situazione di superiorità. Ma non erano sciocchi, avevano maturato esperienza e professionalità, ed allora facevano veri e propri sondaggi tastando la pietra intorno e solo allora i pirriatura decidevano se quello era posto per aprirvi la pirrera.
Lo scalpellino era diverso dallo sbozzatore.
Lo sbozzatore lavorava dodici mesi all’anno all’aperto, e stendevano il braccio fino in cielo prima che la mazzetta calasse sulla subbia per scardare e squassare la pietra.
Nella neve quando la cava era in montagna, come a Bella Nova o sulla Montagna Grande o su monte Sparagio. Nel fango e sotto la pioggia sferzante nei mesi invernali ed autunnali, con le scarpe che si fanno pesanti per la terra bagnata che vi si attacca quando la cava sta a ridosso di una collina.
Con la roccia appena strappata alla terra, con i blocchi di marmo sradicati dagli imponenti filoni di pietra che formano la montagna, e subito studiati e valutati, ed aggrediti per essere squadrati e ritagliati, sbozzati prima del trasporto su camion coraggiosi, temerari nell’affrontare le discese ripide dalla montagna, con il carico di massi, per raggiungere i laboratori degli scalpellini trapanesi che ne facevano lapidi per i morti, pavimenti, balate per lastricare le strade cittadine del centro, bagli.
E c’erano i massi squadrati e biancheggianti che partivano per i paesi arabi dove ricchi sceicchi avevano piacere ad adornarvi i loro palazzi. Il marmo bianco perlato di Custonaci era apprezzato nei paesi arabi.
E’ diverso dallo sbozzatore, e non tanto, e non solo, per i luoghi diversi in cui si svolge la loro attività, riparato il primo, pianeggiante e delimitato come luogo della lavorazione del marmo, in una atmosfera bianca come quella di mulini cimiteriali che macinano farina per i morti, con la polvere pesante del marmo che imbianca le sopracciglia e le ciglia, e il viso tutto, e la fronte, depositandosi nei solchi delle rughe, come tra le valli e valloni aridi d’estate, ed il rumore dei battiti del metallo sulla pietra dura, e l’odore intenso di zolfo che trafigge come punta di lancia le narici o di cerino acceso vicino alla bocca;
All’aperto per dodici mesi all’anno il secondo, nella neve quando la cava è in montagna, e nel fango, o sotto la pioggia sferzante quando sta a ridosso di una collina, con la roccia appena strappata alla terra o con blocchi di marmo ritagliati e sradicati dagli imponenti filoni di pietra che formano la montagna, e subito studiati, ed aggrediti per essere squadrati e sbozzati prima del trasporto nei laboratori degli scalpellini trapanesi per farne lapidi per i morti, o pavimenti e pareti di palazzi, con le mani e le dita irrigidite dal gelo in inverno e la gola arsa dalla sete nelle estati agostane quando le scorze del mandorlo si irrigidiscono e seccano e si accartocciano e ilserpe nero si inerpica a bocca spalancata ed afferra fringuelli che beccano insetti sullespine dei cardi, senza ombra e riparo dai raggi del sole.
Le pirrere intanto spuntavano anche tra le case del paese, non solo tra le colline osulla montagna, e siccome quando scoppiavano le mine tutte le pietre finivano sulle case, subentrò la legge che stabiliva la distanza che le pirrere dovevano avere dalle case e dal paese,ed il fabbro, che aveva smesso di ferrare i mulie gli asini, batteva sull’incudine dall’alba al tramontoper rifare le punte alle subbie ed agli scalpelli che, spuntati, i cavatori gli portavano a tutte le ore, guadagnandoci rispetto ai ferri di cavallo, ed al sicuro dagli umori dei quadrupedi che scalciavano quanto meno te lo aspettavi.