I racconti di Nicola Quagliata
Tornino le farfalle a volare. Gli Spiriti
Nei pomeriggi d’estate, nel quartiere Petrazzi, si sentiva il mare, con le profondità, le alghe, i fondali, ed i coralli , ed il sale cristallino, umido e pungente sulla punta della lingua, con l’aria che si respirava. Si sentiva nelle narici, strette e brevi, fin dentro alle cavità dei polmoni. Se ne avvertivano le increspature argentate, leggere e delicate fino all’orizzonte, ed i marosi.
In un caldo pomeriggio d’estate mentre giocavo con una palla da tennis color sorcio, tirandola a muro, ed acchiappandola al rimbalzo con salti da grillo, mentre tutti nelle case del quartiere, con le porte sbarrate alla calura, aspettavano che il sole, alle spalle della montagna, scendesse, allungando la sua ombra e placando il bagliore della luce con la frescura della sera, e la brezza salmastra del mare.
Gli odori delle case, di origano essiccato e cipolle intrecciate e, trecce d’aglio rosso russeddru, di giummara e disa stesi al sole, del vino dei barili, della stalla dei muli e della cavalla di luzu’ Palicchiu, che nella fornace solare si fondevano in uno solo, ora, all’ombra della montagna e del sole calante, si distinguevano nettamente, l’origano e le cipolle rosse e la giummara e la disa ed il barile ed il mulo e la cavalla, perchè nella via abitavano mezzadri e affittuari e piccoli proprietari della riforma agraria che avevano occupato le terre degli agrari e dei mafiosi, con la terra a Gagliardetta ed a Fragginesi che raggiungevano nelle mattinate partendo col mulo e vi abitavano i disalori senza terra, per la disa delle corde nelle tonnare e per le fabbiche di crine.
Passavo interi pomeriggi giocando da solo con la palla color topo, tirandola a muro ed acchiappandola al rimbalzo con una mano o con l’altra (da ambidestro) a secondo la direzione che gli davano le incrostazioni della parete, o quella capricciosa ed improvvisa che prendeva, tanto era sghimbescia, da non somigliare ad una sfera ma ad un uovo di papera. Io avevo tenuto nel palmo della mano l’uovo di papera, e perciò mi era fa miliare la palla da tennis che non si sa come avesse raggiunto il mio quartiere per finire nelle mie mani.
La direzione del rimbalzo saettava imprevedibile, e dovevo essere sempre pronto a scattare, di qua o di la, come una molla nella sua direzione di ritorno dal lancio, per acchiapparla, ma questo faceva parte del gioco, la parete era quella di casa mia, nella via più risorgimentale del quartiere di fine ottocento, arroccato sul pendio della montagna, – costruito in tufo giallo con le pareti esterne ed interne delle case imbiancate a calce di diversi colori, rosella e verdino, bianco come la calce, celeste, con ogni abitazione che decideva il suo colore indipendentemente dai vicini, nato con l’unità d’Italia – la via Cavour, un decumano che si immette ad ovest sulla discesa della via Lavinaro, un vallone naturale, poi ricoperto e diventato una via senza aver mai perso la sua natura di vallone, che scende da una piega della montagna assecondandone gli umori, le seduzioni e gli odori ed i colori, sempre pieno di farfalle, di api, vespe gialle e mosconi azzurri ronzanti, frenetici tra l’artemisia infestante, le euforbie carnose in cespugli ad ombrello come l’esplosione di un fuoco pirotecnico, le aloe, i cornioli, gli anemoni e le variopinte orchidee.
Una volta che non afferrai la palla questa se ne andò per i fatti suoi, rimbalzando prima sulla canaletta al centro della strada, e poi sull’anta socchiusa della casa di fronte, infilandovisi dentro e scomparendo nel buio della stanza.
Io la seguii fino all’uscio ed esitando misi la testa dentro per vedere dove era finita e riprenderla, magari senza farmi vedere da nessuno . Mi guardai nuovamente attorno per assicurarmi che non ci fosse nessuno a vedermi ed entrai.
Dentro la stanza c’era silenzio e nel silenzio un mormorio basso di voci lontane che proveniva dall’ingresso delle scale, a destra della stanza sulla parete di fronte, a destra del mobile sotto cui era scomparsa la mia palla. Ero entrato nella casa della za Maria, una donna dallo sguardo calmo, che non alzava mai la voce, tranne quando le sue urla riempivano tutta la strada, ma non era lei, erano gli spirdi di cui era posseduta, e rinunciava ad ogni discussione, ed aveva pure la camminata tranquilla, senza scatti e senza dare l’impressione di poterne avere, attorno agli occhi aveva dei cerchioni neri, e nere le pupille, sulla sua faccia bianca, che mai un raggio di sole vi si era posato, in tutta la luce del giorno, sembravano due pozzi senza acqua. La casa della za’ Maria era un via vai di gente di tutte le età, e si diceva che venissero da tutta la Sicilia ed anche dalla Calabria, in cerca di una risposta alle loro disperazioni esistenziali, disperazioni dell’anima, dello spirito, e della persona. Venivano dalla za’ Maria perchè lei sapeva leggere nella loro disperazione quel che neppure immaginavano, la perdita dell’appetito, della attrazione verso la moglie e le donne, con un irresistibile trasporto verso il proprio stesso sesso, e le incotrollabili stranezze delle donne che avevano disgusto verso il marito tanto amato fino al giorno prima, e poi tutti quanti si mettevano a parlare con voci non loro in lingue e dialetti mai sentiti, finché non si capiva che non erano loro responsabili di quegli atti, e che degli spirdi erano entrati nei loro corpi, disponendone come meglio credevano ed a loro piacimento. Dal momento in cui iniziavano a fare stranezze, e si capiva che non erano più loro, si individuava negli spirdi la causa di quella estraniazione, e bisognava capire chi albergasse nei loro corpi, e quanti ne fossero. La za’ Maria era in grado di farlo, aveva il potere di stabilire un rapporto diretto con gli spirdi che possedevano i corpi, di parlare a tu per tu con ognuno di loro, e di esercitare una azione lenta di persuasione, affinchè abbandonassero quel corpo disgraziato.
Gli spirdi non potevano abbandonare un corpo senza entrare in un altro, per loro l’abbandono di un corpo non era come uscire di casa e trovarsi all’aria aperta per godere di ogni dono della natura. All’aria aperta gli spirdi andavano incontro alla perdita di senso, alla dispersione di sé diventando preda facile per gli spiriti maligni. Potevano uscire da un corpo solo se ne avevano un altro pronto ad ospitarli. La za’ Maria questo faceva, si rendeva disponibile a prenderli dentro di sé, purchè lasciassero quello del disgraziato.
Una volta la za’ Maria arrivò ad avere nove spirdi dentro di sé, e per intere giornate non era possibile parlare con lei, chiunque le rivolgesse la parola a rispondere era sempre uno di loro e mai lei. Io ero curioso, con una gran voglia di parlare con qualcuno di loro, farmi raccontare la sua vita e come era morto. E con uno ci parlai. Mi misi con lo sguardo piatusu nel chiederlo alla za’ maria, tantupiatusu che acconsentì, ma doveva scegliere quello adatto a parlare con me, e fu una donna.