La storia siciliana è ricca di esempi. In particolare uomini delle Istituzioni uccisi e delegittimati per le loro indagini
Ho trascorso un bel po’ di giorni a leggere carte giudiziarie antiche e nuove. L’ho fatto pensando alla sorte tragica di un magistrato, il sostituto procuratore Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Oggi è il 38° anniversario del suo barbaro assassinio a Valderice, delitto ad opera di Cosa nostra. Ma l’ho fatto anche ripercorrendo la storia di altri magistrati e investigatori di questa città, sopravvissuti ma non sfuggiti al fango, per ottenere la loro delegittimazione. Cercando di conoscere meglio la storia di un territorio che per decenni ha ritenuto non utile la lotta alla criminalità. C’è chi sostiene che questo è accaduto per l’assenza dello Stato, ma spesso la strategia era quella di mettere fuori dalle stanze del potere pubblico proprio lo Stato, ritenuta la sua presenza fastidiosa. Una terra bellissima, diceva Paolo Borsellino, che però non ha mai smesso di stare in silenzio dinanzi alla puzza della mafia, proprio tutto il contrario di quello che disse Borsellino in uno dei suoi ultimi interventi, prima di essere dilaniato dal tritolo mafioso davanti casa di sua madre a Palermo, il 19 luglio 1992. Seguendo in questo destino barbaro il suo amico e collega Giovanni Falcone, che allo stesso modo fu ucciso a Capaci il 23 maggio dello stesso anno. Mi sono interrogato se questa sia ancora o meno la terra del capitano Bellodi, figura uscita dalla penna di Leonardo Sciascia. Qualche tempo fa un generale dell’Arma dei Carabinieri, mi pare Robusto faccia di cognome, parlando a Valderice, in occasione del ricordo del carabiniere Pietro Morici, ammazzato nel giugno del 1983 assieme al capitano D’Aleo e ad un altro carabiniere, Giuseppe Bommarito, rispondendo alla domanda del giornalista Attilio Bolzoni, disse che di casi Bellodi in Sicilia non se possono più ricordare. Di carabinieri cioè trasferiti per punirli di indagini su intoccabili. Questo era il finale de “Il giorno della civetta” di Sciascia. Ed invece la storia quanto l’attualità siciliana è ricca di esempi di investigatori fermati proprio nei momenti clou delle loro investigazioni. Non fermati da Cosa nostra, ma spesso da loro superiori. Può essere questa la storia di un prefetto, Fulvio Sodano, mandato via da Trapani mentre si occupava di ridare uso ai beni confiscati, sottraendoli ai mafiosi che ancora li possedevano a dispetto di sentenze di confisca. Può essere la storia dell’ex capo della Squadra Mobile Rino Germanà, mandato lontano da Palermo e riportato a Mazara a fare il commissario, e dove, dopo le indagini su certe banche siciliane, come la Banca Sicula della famiglia D’Alì, si ritrovò dinanzi, non si è capito mai a conseguenza esatta di cosa, un commando di killer che volevano ucciderlo, un trio pericoloso, che per fortuna fallì, formato da Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano. Può essere la storia di un altro poliziotto Giuseppe Linares che ad un passo davvero dall’acciuffare Matteo Messina Denaro, si vide promosso e mandato alla Dia di Napoli, per volere dell’allora ministro degli Interni Alfano che pare gli ebbe a spiegare che l’emergenza era la camorra e non la mafia. Oggi per fortuna Linares è tornato in Polizia, è uno degli uomini più vicini al prefetto Gabrielli, Capo della Polizia, e dirige il Servizio centrale anticrimine del Viminale. E con gli esempi potremmo continuare. La mafia sommersa non spara più ma sa usare altri metodi e altri mezzi per togliersi dai piedi certi suoi impicci.
Ricordate il film “La sottile linea rossa”? Ecco mi sono immaginato così la storia di tanti uomini coraggiosi di questa terra, detti coraggiosi perché capaci a resistere dal richiamo dell’ammaliante ambiente, colluso, che li ha circondati. Ognuno di loro ha avuto davanti una sottile linea rossa, l’averla superata o prossimi a superarla, ha scatenato la rappresaglia. Cominciando da Ciaccio Montalto, puntava ai traffici di droga e ai riciclaggi di denaro nelle pulite banche locali, finì prima ammazzato e poi con la memoria infangata. E questo ancora prima. Basta leggere le carte delle audizioni al Csm, dei suoi colleghi dopo il delitto. Lo scenario che viene fuori da quelle carte non è di grande onore per il Tribunale di quegli anni. Addirittura si era insinuato il sospetto che il magistrato fosse stato tacitato dalla mafia, quando semmai il corrotto era un altro, ma tutto questo fino al delitto di Ciaccio Montalto rimase chiuse nella coscienza sporca di qualcuno. Ciaccio Montalto da vivo si ritrovò a dovere giustificare ad un ispettore ministeriale l’acquisto della sua barca. In quelle carte parole a difesa del magistrato, prima del suo delitto, non se ne trovano, se non a posteri. Ciaccio Montalto aveva superato la sottile linea rossa e così anche da morto ci fu chi si prese la briga di delegittimarlo, mettendo in giro la voce che era stato ucciso per relazioni extraconiugali, non avendo alcun rispetto per la vedova e le sue tre bambine. Il sindaco di allora Erasmo Garuccio per la prima volta se ne uscì con la tesi che a Trapani la mafia non c’era. tesi ripetuta due anni dopo davanti alle vittime della strage di Pizzolungo. Anche in questo caso il magistrato destinatario di quell’attentato, Carlo Palermo, aveva superato una sottile linea rossa, quella della politica in affari con i criminali. Tra Ciaccio Montalto e Carlo Palermo vi fu in comune un Tribunale dove ad essere chiacchierati erano loro e non quelli che invece garantivano il ventre molle della Giustizia. Non sono scenari del tutto scomparsi. Ci sono state indagini fin quelle più recenti, come quelle sulla massoneria, che hanno visto nel contempo tentativi di bruciare la terra non attorno ai criminali, ma attorno ai pm e ai loro più stretti collaboratori. Magistrati finiti per ragioni stupide dinanzi al Csm, come accadde al pm Paolo Di Sciuva, protagonista di un ridicolo procedimento disciplinare, o altri processati per querele da quattro soldi, davanti al giudice di pace di Caltanissetta, con tanto di assoluzioni e archiviazioni, come è accaduto al pm Andrea Tarondo, oggi impegnato in una missione internazionale in Perù. Penso anche un ispettore della pg della Forestale, Ino Conigliaro, oggi comandante del nucleo operativo della Forestale. Anche loro hanno superato la sottile linea rossa. Al contrario di altri loro colleghi che frequentavano nel frattempo quelli che qualche anno dopo saranno definiti grazie ad una indagine dei Carabinieri, i protagonisti della maxi corruzione del mare. O di altri ancora che furono scoperti a tenere nell’armadio alcuni scheletri. Già, la sottile linea rossa, quella che separa i mafiosetti e gli scassapagliari da quelli che frequentano templi e tempietti e gestiscono il vapore. Ecco rileggendo certe carte su Ciaccio Montalto, ho acquisito maggiore convinzione di qualcosa che scrivo da tempo, non sembra di leggere pagine di storia, ma cariche di densa attualità, e che è ingiusto ricordare ad ogni anniversario Ciaccio Montalto per la sua passione per la cultura e la musica, ma deve essere ricordato per le sue indagini. Di Ciaccio Montalto si descrive la sua come la vita di un nobile, un blasonato, e invece la sua fu la vita di uno che guardava agli ultimi, che con flussa sanguigno (parole scritte dallo storico Salvatore Costanza) affrontò la criminalità mafiosa: “le sue inchieste un monito difronte alla vischiosità del potere”, conquistando per quelle sue indagini quel titolo di nobiltà che Trapani ancora non del tutto ha riconosciuto.
Già è difficile riconoscere diritti a chi indaga in modo giusto e corretto. Spesso solo colpe. E veniamo agli ultimi degli episodi nei quali mi ritrovo a scrivere da qualche tempo, tanto da attirare l’attenzione del presidente della Commissione nazionale antimafia, senatore Nicola Morra, che mi ha voluto sentire qualche mese addietro a Palazzo San Macuto. La vicenda che ha per protagonista un luogotenente dell’Arma, Paolo Conigliaro, che nel giro di un paio di giorni si è visto rimosso da comandante della stazione di Capaci e mandato a momenti a “contare cravatte” al comando provinciale, se non fosse stato ripreso in servizio attivo e a fare indagini alla Dia. Qualche giorno fa il presidente della Commissione antimafia regionale, Claudio Fava, in un articolo si è soffermato sul sistema Montante, dal nome del presidente di Sicindustria che con l’alibi dell’antimafia, si era creato attorno a se una rete di obbedienti servitori, agendo con sistemi mafiosi per togliersi di mezzo anche lui certi impicci. Fava lo ha scritto chiaramente, se Montante è caduto, quel sistema ancora no. Chiedete per conferma al luogotenente Paolo Conigliaro. A Capaci intercettò un importante segmento di quel sistema, scoprì complicità dentro al Comune, scoprì colleghi non proprio casti e puri, voleva ottenere dalla prefettura l’accesso per sciogliere quel Comune, ma in pochi giorni si è visto togliere dalle mani indagini e comando. Lui come Bellodi e non trent’anni fa, ma l’altro ieri. La procura di Palermo ha archiviato le sue indagini su un centro commerciale che uomini di Montante volevano costruire a sfregio di ogni regola, ma ha anche archiviato certe querele che gli erano cadute addosso anche da suoi colleghi. Cosa che invece non ha fatto la Procura militare di Napoli: i suoi superiori, quelli ai quali pare non andassero a genio quelle sue indagini, sono riusciti a mandarlo a giudizio, il processo è in corso. Sotto processo per cosa? Per i contenuti di una chat, privata, tra commilitoni, dove per burla si prendevano in giro altri carabinieri. reato, diffamazione. Ma prima di quel processo Conigliaro subì un atto pesante, irrituale, fuori da ogni legittimo arbitrio. Prima di consegnargli l’avviso che era indagato per diffamazione, subì da un suo superiore, una perquisizione corporale di quelle che nemmeno ai mafiosi si fanno. Anche lui fa parte di quelli che hanno superato la sottile linea rossa. In questo caso la linea dietro la quale c’è un sistema Montante ancora parecchio attivo, dove i cattivi sono quelli che fanno indagini.