“Messina Denaro era in via d’Amelio”

La confessione del pentito catanese Maurizio Avola, ex killer della cosca etnea: il boss trapanese partecipa anche alla uccisione del pm Ciaccio Montalto

Il boss Matteo Messina Denaro, 59 anni dei quali 28 trascorsi in una latitanza ininterrotta dal giugno 1993, sulla scena della strage di via D’Amelio in cui furono barbaramente uccisi il procuratore Paolo Borsellino e i suoi agenti della scorta, Emanuela Loi, Walter Cusina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Il capo mafia di Castelvetrano forte di una alleanza con la mafia catanese, fu tra quelli che uccisero in Calabria il magistrato della Cassazione Antonino Scopelliti e prima a Trapani il pm Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Notizie che sono il risultato di un lavoro proprio del giornalismo investigativo. Già in passato anche da queste pagine scrivendo di Ciaccio Montalto avevamo raccontato che quel delitto doveva essere riletto, e che allo stato la verità e la giustizia su questo omicidio non sono state compiutamente rese. Adesso si affacciano nuovi elementi. La strategia mafiosa che dagli anni 80 in poi ha portato alla uccisione di uomini delle Istituzioni non sarà letta compiutamente se resterà ancora spezzettata. Ce lo dice in un libro prossimo all’uscita il giornalista Michele Santoro: a lavorare con lui un gruppo di veri infaticabili, professionisti del giornalismo d’inchiesta, tra questi un’altra firma importante del giornalismo italiano, come Guido Ruotolo. Per diverso tempo sono stati a fare quello che non tutti i giornalisti sono oramai abituati a fare, andare nei tribunali a leggere le sentenze, seguire poi determinati processi. Nell’epoca in cui i giornalisti scrivono di ordinanze di custodia cautelare, perdendo poi di vista i dibattimenti e le pronunce dei giudici (una volta mi capitò di sentirmi dire da un acclamato giornalista che è inutile leggere le sentenze), Santoro ha scelto di spendere questi mesi di allontanamento dalla tv, sua specialità nel fare informazione, frequentando i Palazzi di Giustizia, scoprendo quelle verità che stanno nelle carte giudiziarie, incollando i pezzi, mettendo assieme un puzzle, accedendo luci sulle zone d’ombra. Da domani sarà in libreria il suo libro “Nient’altro che la verità”. Su la 7 stasera andrà in onda uno speciale dedicato al libro, condotto da Enrico Mentana e con in studio oltre a Santoro tra gli altri anche Fiammetta Borsellino, l’ex pm Antonio Di Pietro e il giornalista Andrea Purgatori. A parlare di Via d’Amelio e del delitto Ciaccio Montalto è stato l’ex killer catanese Maurizio Avola, il sicario che uccise anche il giornalista Pippo Fava. Uno che di segreti di Cosa nostra se ne intende benissimo. E’ lo stesso che ha parlato dei contatti tra mafia e massoneria. Da Marcello D’Agata, “consigliori” della famiglia mafiosa di Catania, ha detto di avere appreso che vertici di Cosa Nostra sono inseriti nelle logge segrete della massoneria. E fu lo stesso D’Agata che gli svelò del delitto Ciaccio Montalto, magistrato trapanese ucciso a Valderice (Trapani) il 25 gennaio 1983 compiuto da sicari arrivati nel trapanese da Catania e assieme a loro c’era l’allora giovanissimo Matteo Messina Denaro. La morte di Ciaccio Montalto non fu decisa quindi da Cosa nostra trapanese, ma dall’alleanza tra Cosa nostra trapanese e quella catanese. Non fu una vendetta per le indagini, ma la morte del magistrato, ucciso quando era prossimo a trasferirsi alla Procura di Firenze, era l’unico modo per fermare il suo progetto investigativo che era quello di seguire l'”odore dei piccioli”, seguire il filone dei soldi che Cosa nostra guadagnava con il controllo del mercato della droga, le raffinerie di eroina, e che investiva in grandi affari, soldi che finanziavano il traffico di armi, gli appalti, ma che servivano anche ad alimentare Cosa nostra americana. Basta dare uno sguardo alle carte firmate da Ciaccio Montalto per rendersi conto di cosa si stava occupando e di cosa ancora si sarebbe occupato se gliene avessero dato il tempo. Eppure i suoi colleghi sentiti al Csm dopo l’omicidio pare non sapessero nulla delle sue inchieste. Ciaccio Montalto fu ucciso per avere superato quella certa “sottile linea rossa” determinata a Trapani dall’alleanza tra borghesia mafiosa e anche certa parte di magistratura e investigatori. Uno scenario del quale ha parlato con chiarezza il pentito Nino Giuffrè, braccio destro di Bernardo Provenzano, il potente mafioso di Corleone: “a Trapani ci sono i cani attaccati”, insomma a Trapani Cosa nostra in quegli anni ’80 stava bene perché nessuno si occupava di mafia, Ciaccio Montalto superò questa linea e fu ucciso. Matteo Messina Denaro, racconta Avola, all’epoca andava spesso a Catania, dove si discuteva di come aggiustare il processo per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, dove tra gli imputati c’era il boss catanese Nitto Santapaola e il mafioso trapanese Mariano Agate. Un processo che il giornalista Mauro Rostagno seguiva udienza per udienza, raccontando poi ogni cosa in tv, a Rtc: durante il processo Mariano Agate dalla gabbia fece avvicinare un collaboratore di Rostagno dicendogli di andare a dire “a chiddu vistutu di bianco” (Rostagno solitamente andava vestito con abiti bianchi, un grande camicione sui pantaloni) “di finirla col dire minchiate”. Rostagno continuò e fu ucciso il 26 settembre 1988. Ma Avola ha svelato che in via d’Amelio a Palermo quel 19 luglio 1992 c’era anche lui. Ha raccontato dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta durante il processo che ha visto condannato per le stragi del 1992 il trapanese Matteo Messina Denaro, che fu lui a dare il segnale per la detonazione stragista. Ha detto di aver guardato negli occhi Borsellino prima di dare il segnale. E in via d’Amelio c’era anche Matteo Messina Denaro. Il processo che a Caltanissetta lo ha visto condannato, frutto di un intenso lavoro investigativo coordinato dal procuratore aggiunto nisseno Gabriele Paci, vicino alla nomina a procuratore a Trapani, dopo il voto della commissione incarichi del Csm, ha posto il boss trapanese al centro della scena stragista assieme a Totò Riina, dopo che nei precedenti processi delle stragi non era nemmeno tra gli indagati. Un processo che non ha messo alcun punto finale. Quanto emerso dal dibattimento è materiale utile per riaprire altre inchieste, come quella per l’omicidio di Ciaccio Montalto. Il processo poi ha fatto emergere come Matteo Messina Denaro da tempo aveva deciso la morte di Paolo Borsellino, reo di avere sfidato il padre: Borsellino quando era procuratore a Marsala aveva portato don Ciccio Messina Denaro, il padrino del Belice, davanti ai giudici del Tribunale delle misure di prevenzione. I giudici però non diedero retta a Borsellino e respinsero quella richiesta. Per loro l’anziano boss belicino non era pericoloso. Erano appena iniziati gli anni ’90, e adesso sappiamo che in quegli anni don Ciccio Messina Denaro non era solo il capo della cupola provinciale di Cosa nostra trapanese, ma era sullo stesso piano di Riina e Provenzano. Erano gli anni in cui la mafia trapanese stava vicinissima alla borghesia trapanese. I Messina Denaro, padre e figlio, erano i campieri, i guardiani, dei vasti possedimenti terrieri di proprietà di famiglie blasonate, come i D’Alì. Secondo i pentiti parteciparono alla scalata del potere politico da parte di Antonio D’Alì, nel 1994 diventato con Forza Italia, senatore della Repubblica. Nel suo libro Michele Santoro racconta trent’anni di storia italiana. Maurizio Avola è un killer della mafia che ha alle spalle ottanta omicidi e ha preso parte alla stagione delle stragi. «Non so bene – ci dice Michele Santoro – perché ho deciso di incontrare uno che ha ucciso ottanta persone. Guardo Avola e ho la sensazione di trovarmi davanti uno specchio nel quale comincio a riconoscere tratti che sono anche i miei. Inizio a seguirlo in un labirinto di ricordi». Maurizio Avola non è famoso come Tommaso Buscetta e non è un capo come Totò Riina. Ma non è un killer qualsiasi: è il killer perfetto, obbediente, preciso, silenzioso, e proprio per questo indispensabile nei momenti decisivi. Forse sottovalutato dai suoi capi e dagli inquirenti che ne hanno vagliato le testimonianze, ha archiviati nella memoria particolari, voci, volti che coprono tre decenni di storia italiana. Ad accendere l’interesse di Santoro è il fatto che Avola abbia conosciuto Matteo Messina Denaro e abbia compiuto con «l’ultimo padrino» diverse azioni. Scoprirà però che è solo una parte, e non la più rilevante, di quanto Avola può svelare, andando incontro a quella che è probabilmente l’inchiesta più importante della sua vita. A Michele Santoro, Avola ha affidato le tessere del puzzle e le sconvolgenti rivelazioni che emergono. Mafia e antimafia, politica e potere, informazione e depistaggi, vicende personali e derive sociali si intrecciano in un racconto che si muove tra passato e presente, dalla Sicilia degli anni settanta al paese che siamo diventati.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.