Diego, bravissimo vice dei vice cronista sagace dal grande fiuto
di MARIO GENCO*
La chiamavamo Redazione Trapanese del Giornale L’Ora. Era uno stanzone abbastanza malmesso al piano terra e nemmeno ricordo più bene in quale viuzza della città vecchia. Dalle parti della Biblioteca Fardelliana, forse, Non ricordo nemmeno che avesse finestre, d’inverno ci si stava dentro tenendo socchiusa la sua grande porta di ex magazzino, per far circolare un po’ d’aria nel miscuglio di fumo di sigaretta e di effluvi di varia origine. Era la fine degli anni Cinquanta: Il corrispondente titolare era il giovane storico Salvatore Costanza. I vice-vice-vice corrispondenti erano tre giovanotti che da due o tre anni erano usciti dal Liceo Classico Ximenes. Si chiamavano Diego Adragna, Salvatore Fiorenza e Vito Lombardo. Gli ultimi due erano stati compagni di classe dalle scuole medie al liceo.
Diego Adragna era più piccolo di un anno, stesso liceo altra sezione: era il più vice dei vice. La cronaca quotidiana era lui tirarla avanti: bianca, nera, grigia e di qualsiasi altro colore la vita cittadina proponesse. In quegli anni ero fresco reduce da improbabili studi di ingegneria a Milano, interrotti per poco liete vicissitudini familiari (ma sarei ancora lì a preparare il primo esame di chimica, nessun rimpianto). A Trapani non avevo niente da fare e così un giorno, chissà perché, andai a trovare i miei due compagni di scuola, incuriosito da quel loro strano lavoro e ci trovai anche Diego, che conoscevo bene perché avevamo giocato insieme nella squadretta di calcio del Liceo, lui aveva sostituito me infortunato nella storica disfida con il Liceo Scientifico, finalmente vinta dai “classici” (per la prima, e forse ultima volta nella storia”).
Il fatto era che quelle visite, a una cert’ora, mi lasciavano solo in quello stanzone inospitale e asfissiante, poi tutti uscivano per cercare le notizie e quando tornavano subito alla macchina per scrivere, urgeva il tempo per riempire il “fuorisacco” con articoli, foto e talvolta esigue note-spesa per il Giornale da portare alla stazione e consegnare al procaccia postale dell’ultimo treno per Palermo.
Così, un giorno chiesi a Diego di poter accompagnarlo nei suoi giri di cronaca, come li chiamavano. Ospedale, Carabinieri, Questura e così racimolando. Diego era cronista sagace. Aveva fiuto per acchiappare le notizie, capiva se quel giorno fosse propizio dallo sguardo di un brigadiere, dal sorrisetto di un maresciallo, dal broncio di un usciere. E con maieutica sorniona a poco a poco riusciva a farsi raccontare quanto bastasse per scrivere una storia
Che lui poi raccontava ai lettori con una lingua netta e scorrevole, raramente infiocchettata di citazioni letterarie tanto care a molti frequentatori di menabò. Solo una volta non riuscì a evitare il titolo di un dramma di Ibsen, Casa di Bambole, nel resoconto di un processo d’Assise, storia di sesso paesano finito in tragedia. Vai a sapere perché, gli era entrato in testa e non aveva la forza di abbandonarlo. Insomma, era un cronista proprio bravo, gran lavoratore, molto apprezzato da Vittorio Nisticò e dallo Stato Maggiore del Giornale. Passò qualche anno e dal magazzinaccio l’Ufficio di Corrispondenza si trasferì in un dignitoso appartamentino al primo piano con le finestre sul corso Vittorio Emanuele II, in pieno centro. Un altro vivere. Io intanto ero entrato in pianta precariamente stabile, nell’organico virtuale della redazione, ero un topo del pronto soccorso. A proposito di topo, come dimenticare il topaccio di fogna che un giorno s’intrufolò dal gabinetto e Diego fece fuori scalciandolo violentemente proprio addosso a me?
Il sogno di Diego era d’essere chiamato in sede a Palermo e un giorno il sogno si avverò. Questione di mesi, o forse di qualche anno, sarebbe stato iscritto all’Albo come praticante: legalmente significava solo l’ufficialità formale di inizio carriera, in realtà era la fine di un’ansiosa aspettativa e la quasi definitiva certezza di futuro. Per Diego, per il quale aumentavano a Palermo stima e fiducia, non fu così. Incappò in una delle ricorrenti crisi finanziarie del Giornale e fu rimandato a dirigere l’Ufficio di Corrispondenza di Trapani. Da cui contemporaneamente fummo cacciati Salvatore Costanza e io. La colpa di questo pretesto era stata mia: avevo bucato un omicidio passionale avvenuto a Trapani dopo mezzogiorno, l’avevo saputo più tardi e stimato che non avrei fatto in tempo per un’eventuale “straordinaria” della seconda edizione di Palermo o per una “ribattuta” dell’edizione di Trapani. Diego tornò a Trapani ma capì che la strada ricominciava a farsi lunga, e ne scelse un’altra, voleva sposarsi e avere un lavoro sicuro di cui vivere. Scelse i libri e diventò l’agente della casa editrice Einaudi. Prese un grazioso piccolo negozio in una bella via del centro, che presto diventò un fecondo cenacolo di lettura. Diego ci sapeva fare in quel suo nuovo mestiere, che gli fu prodigo di soddisfazioni e successi. Si trasferì poi a Messina dove divenne agente della casa editrice Giuffrè, leader di testi giuridici e professionali. Ma aveva casa a San Vito, ci tornava ogni estate e mi ospitò la notte in un cui feci tappa in quel porticciolo nella mia prima traversata da Sferracavallo a Marettimo, con la mia barchicella di Marinaio immaginario, come argutamente di definì un giorno Alberto Spampinato. Ho ricordi accorati delle notti in cui, consegnato il fuorisacco alla stazione, con Totò Costanza accompagnavamo Diego fino a casa, che abitava abbastanza fuori porta, e capitava che lui riaccompagnasse noi per un pezzo di strada a ritroso.
Fonte L’Ora, edizione straordinaria