Quel solito ritornello

 A trent’anni dalle stragi del 1992 c’è ancora chi dice che la mafia non esiste

Quante volte in questi trent’anni è stato squarciato l’asfalto dell’autostrada? Quante volte in questi trent’anni è stata insanguinata via d’Amelio? Ma la stessa domanda ce la dobbiamo fare a proposito del 2 aprile 1985, quante volte in questi 37 anni è esplosa l’autobomba piazzata sulla strada di Pizzolungo? Tantissime volte, la risposta. Questo è successo ogni volta che ad un magistrato, ad un giudice, ad un investigatore, non è stato permesso di poter svolgere il proprio lavoro, ogni volta che un magistrato si è visto privato d’improvviso della titolarità di una indagine, di rispondere di accuse risibili e farneticanti davanti agli organi giudiziari, ogni volta che un investigatore si è visto privato del comando di indagini, trasferito oppure finire sotto processo magari per avere scherzato su una chat privata sul cognome di qualche suo collega, ogni volta che ad un sequestro e confisca dei beni si è sentito dire che a perdere è l’economia di una città, di un territorio, invece di affermare che a perdere è la mafia alla quale viene così sottratto un pezzo di potere. Ogni volta che si sente dire che la mafia non esiste o che è stata sconfitta e quindi, ci si vorrebbe dire, limitiamoci a ricordare le vittime e chi dice che la mafia esiste è solo un visionario.

Tutto questo, vi assicuro, regge dinanzi ad ogni tentativo di smentita. Così come non possono esserci smentite a quella stagione in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lavoravano sapendo da una parte di dovere sconfiggere giudiziariamente mafia e mafiosi e dall’altra parte dovevano difendersi dai mascariamenti anche dei loro colleghi, per non parlare di certa politica. Fu proprio Falcone a sentirsi rimproverare dai suoi superiori sul danno che stava provocando all’economia portando le sue indagini a guardare dentro le banche, dentro le esattorie, dentro le imprese. Ma ancora oggi è la stessa cosa che si ripete ad altri magistrati. Fu Paolo Borsellino a sentirsi rimproverato per quella nomina a Procuratore di Marsala ottenuta, si disse, scavalcando magistrati con maggiore anzianità. Lì nacque con una sciagurata interpretazione di un articolo di Leonardo Sciascia, la frase “professionisti dell’antimafia”. Quante volte l’abbiamo sentita questa affermazione, quante volte la sentiamo ogni giorno, sicuramente anche oggi qualcuno troverà occasione di farlo. Ma sciaguratamente ancora oggi c’è chi dentro la magistratura ritiene indelebile il diritto ad un incarico in nome dell’anzianità di servizio, e quando il Csm ritiene che questo non sia l’unico requisito per valutare una nomiuna, ecco che fioccano i ricorsi. Come sta accadendo all’attuale procuratore di Trapani, Gabriele Paci, costretto a difendersi dinanzi al Tar di Roma dal ricorso presentato da un suo collega, il dottore Massimo Palmeri per il quale restare a fare il procuratore ad Enna è cosa alquanto pesante e puntava a rientrare nella sua Trapani.

Oggi in tanti saranno a Capaci. In questa cittadina palermitana dove appena qualche giorno addietro un consigliere comunale, Salvo Luna, luogotenente dei carabinieri in pensione, per togliersi qualche sassolino dalle scarpe, ha pensato bene di dire che la mafia a Capaci non c’è, a dispetto invece di tante indagini più o meno recenti, che hanno provato come a Capaci certi mafiosi hanno trovato accoglienza e si sono anche riciclati in baldanzosi imprenditori. Per carità dobbiamo ben capire l’ex luogotenente Luna, lui da carabiniere ha trascorso più tempo ad occuparsi degli organi sindacali dell’arma, Cobar, e meno di indagini, e magari qualcosa in questi anni gli è sfuggita. Gli è sfuggito che mentre ci sono indagini che hanno fatto scoprire come il sistema mafioso in Sicilia era riuscito a vivere attraverso un imprenditore di tanti successi, Antonello Montante, e che quel sistema ha tenuto legati mafia, imprenditori e uomini delle istituzioni ai più alti livelli, a Capaci quello stesso sistema si è insediato, ha lavorato per anni e forse non ha smesso di operare, pensando ai centri commerciali da costruire e gestire, a creare reti di connessioni sopraffine, a gestire lo sviluppo del territorio. A Capaci ci sono stati consiglieri comunali che si facevano fotografare con i mafiosi, che andavano in giro a presentarli come persone perbene, oggi pare che ci siano uomini in divisa che con i mafiosi fanno affari e comprano ville ancora prima che vengano costruite o ancora prima che si facciano le lottizzazioni. Il consigliere comunale Salvo Luna ha avuto una disputa giudiziaria contro un suo collega, l’ex comandante della stazione dei Carabinieri di Capaci, il luogotenente Paolo Conigliaro. Una disputa per una chiacchierata intrattenuta da Conigli aro su una chat, dove Luna si è sentito chiamato in causa. Il Tribunale militare di Napoli gli ha dato ragione. Probabilmente ottenuta questa vittoria in un’aula di giustizia, rimasta però sorprendentemente sorda dinanzi a perizie consulenze che hanno tentato di provare come alcuni contenuti di quella chat prodotti in giudizio non sarebbero stati perfettamente originali, cioè sarebbero stati artefatti, il consigliere Luna appena rientrato a sedersi, per surroga, sui banchi consiliari, ha deciso di rappresentare le proprie ragioni. Ma ha tradito il perché di quel suo risentimento nei confronti dell’ex collega. Non ha parlato di chat o altro, ha fatto riferimento alla proposta di scioglimento per inquinamento mafioso del Consiglio comunale, quello precedente all’attuale, avanzata proprio da Conigliaro, e rimasta chiusa nei cassetti del comando provinciale dell’arma dei Carabinieri di Palermo, mai trasmessa alla prefettura. In quel consiglio comunale Luna era uno dei componenti, lui più degli altri, perché all’epoca era ancora un carabiniere in servizio, avrebbe corso seri rischi se quella proposta fosse andata avanti. La proposta non andò avanti, lo scioglimento non avvenne e così adesso Luna se ne è uscito con l’affermazione che la mafia a Capaci non esiste. C’è solo da reagire con una grande risata, così da sconfiggere la voglia di piangere che pure insorge.

Ecco nel trentennale della strage di Capaci accade anche questo. Si continua col solito andazzo. Quello di non sostenere adeguatamente chi fa il proprio dovere. Non lo furono Falcone e Borsellino che solo dopo essere stati straziati dal tritolo vengono celebrati e presentati come degli eroi. Non erano eroi ma erano uomini liberi che facevano ogni giorno il proprio dovere di magistrati e cittadini senza vincoli di legami con alcuno, se non con la toga che indossavano. Come in vita non fu mai così celebrato come accade oggi un prefetto di Trapani, Fulvio Sodano. La sua non è una storia antica, ma attuale. Le stragi del 1992 c’erano già state da un pezzo quando un sottosegretario all’Interno, il senatore Tonino D’Alì, per capirci, era stato negli anni delle stragi il datore di lavoro dell’attuale latitante Matteo Messina Denaro, e di suo padre Francesco, erano i suoi campieri nei terreni di Castelvetrano, affrontò Sodano dicendogli in buona sostanza che aveva troppo a cuore la tutela dei beni confiscati alle mafie, e di lì a qualche giorno da quelle parole il prefetto Sodano venne trasferito in altra sede. Subendo poi lo sbeffo di un sindaco, tale Girolamo Fazio, oggi sotto processo per corruzione e tante altre cose, che non gli volle concedere la cittadinanza onoraria che il Consiglio comunale aveva proposto. Sodano, morto da qualche anno, trovò poi modo di suggerire a quel sindaco che spargeva spine di non camminare mai scalzo.

Oggi è la giornata in cui vengono usate, e spesso sprecate, parole dette da voci che dovrebbero star mute, tante parole, anche da parte di certi politici, per dirla come diceva Franco Battiato, incapaci di spogliarsi di loro bestialità. Bestiale è quell’urlo contro la mafia che Totò Cuffaro , condannato per reati di mafia, ha lanciato in questi giorni da una tribuna elettorale palermitana. Bestiali sono stati gli applausi. Bestiali certi silenzi. L’urlo gli dà la patente di antimafioso? No, chi combatte la mafia non ha bisogno di urlare, sa solo che Cosa nostra la si contrasta facendo il proprio dovere. E come Cuffaro in questi giorni ci sono sindaci che organizzano incontri e dibattiti, per presentarsi come antimafiosi, ma che con i mafiosi vanno a far banchetti.

Esistono dei ventri molli nelle nostre istituzioni che permettono ai mafiosi di entrare nei Palazzi di Giustizia, negli uffici pubblici, dentro le stanze delle istituzioni. E oggi dobbiamo prendere coscienza che tanto tempo è trascorso invano, se ci ritroviamo in uno scenario molto simile a quegli anni in cui hanno vissuto Falcone e Borsellino. Non ci sono le ammazzatine, non ci sono le stragi, ma la scena è quella in cui la mafia tenta ogni giorno di mantenere il controllo del territorio. Si può andare su questo palcoscenico a parlare della mafia, ma guai a farlo facendo nomi e cognomi. Ai giornalisti è chiesto di assolvere al compito di far ragionare la gente, ma appena scrivi di specifiche vicende ecco che arrivano le querele che sono diventate le armi in mano alla mafia per spegnere le voci che denunciano, armi che sono migliori di quelle vere, ieri, sparando, la mafia sapeva di poter creare degli “eroi”, oggi è cosa migliore far passare chi denuncia e racconta le sue malefatte come dei diffamatori seriali.

Ed allora. Fateci il piacere di ricordare Falcone dicendo chiaramente che la stagione delle responsabilità a 30 anni da quelle stragi del 1992 non è mai decollata. E lo si dica anche nei Palazzi di Giustizia dove regna ancora la regola di distruggere il magistrato che lavora e spesso a farlo è il collega della porta accanto. Dove talvolta si incrocia chi ha scarsa perseveranza nel dare giustizia. Siamo cittadini di un Paese attraversato da una perenne crisi etica che minaccia il presente quanto il futuro. Vogliamo ricordare davvero Falcone? Facciamolo , come spesso ci esorta a fare don Luigi Ciotti, scoprendo la bellezza di essere eretici. Eresia in greco significa scelta, “L’eretico – dice don Luigi – è colui che più che la verità ama la ricerca della verità”. E sulle stragi, e non solo su quelle del 1992 e 1993, c’è ancora tanta verità da scoprire e non è vero che è tutto chiarito e scritto, che la mafia è stata sconfitta. C’è una mafia che a dispetto delle sentenze resta forte e arrogante, che mantiene le sue possibilità di infiltrarsi nelle istituzioni e nell’impresa, perché c’è una politica che per una parte gradisce essere complice, e servire al momento ritenuto opportuno. E i mafiosi spesso ce li ritroviamo tanto vicini e molto prima di quei famosi cento passi. O ancora più vicini possiamo ritrovarci i complici dei mafiosi, certi colletti bianchi, magari messi sul piedistallo dalla massoneria, da quella massoneria che con Cosa nostra continua ad andare a braccetto. Se di mafia oggi se ne parla poco, fuori dagli anniversari, solo quelli però ritenuti eccellenti, come se vi fossero morti di diversa serie e marca, di massoneria se ne parla ancora meno.

Parafrasando Alessandro Baricco, c’è gente che muore e con tutto il rispetto non ci perde niente. Ma l’elenco di nomi scolpiti nelle coscienze di alcuni sono di quelli che lo senti che non ci sono più.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.