NON sono ancora sbiadite le immagini dell’ennesimo funerale di Stato, toccato questa volta al sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e alla sua sventurata moglie, uccisi dalla mafia. Immagini, è doloroso doverlo ammettere, che ci hanno rimandato una chiara sensazione di “già visto”. Come se fosse stato riproposto un copione scritto da tempo e “buono” per tutti gli omicidi eccellenti, abbiamo sentito autorevoli opinionisti sollevare pesanti interrogativi sull’efficacia con cui le istituzioni combattono, così si dice, la criminalità organizzata nel nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, in particolare, interpretando lo sdegno dell’intera collettività, ha rimarcato la necessità di affrontare in modo serio il problema, prima di dover cedere alla tentazione di ricorrere a leggi eccezionali. Eventualità già “bocciata” da più di un esponente delle istituzioni e della cultura e definita rimedio peggiore del male. Nel bozzetto di prammatica non sono mancate le diatribe tra politici locali e la “ferma e incrollabile decisione” di perseguire esecutori e mandanti della efferata esecuzione mafiosa, rivendicata dalle autorità centrali.
Tutto previsto, dunque. Anche il fatto che tra pochi giorni nessuno si ricorderà più del sovrintendente Salvatore Aversa, come è già stato rimosso dalla memoria collettiva il nome di Antonino Scopelliti o di Rosario Livatino, giudici assassinati soltanto qualche mese fa, e i nomi di tutti gli altri magistrati e investigatori caduti, come si suole dire con pudica metafora, nell’adempimento del proprio dovere.
L’indignazione, così, cede progressivamente il passo all’assuefazione verso crimini indegni di un Paese civile e ci si rassegna all’idea che zone sempre più vaste del territorio nazionale ubbidiscano a regole che non sono quelle imposte dalla legge dello Stato. Nello stesso tempo, tranne isolate eccezioni che rasentano e spesso raggiungono l’eroismo, cresce la disaffezione di magistrati e forze di polizia verso il proprio lavoro. Perde efficacia l’azione di contrasto verso la criminalità, che, di contro, da questa certezza di impunità, riceve sempre più vigore. Eppure c’è chi continua a meravigliarsi ipocritamente della scarsa efficienza dell’azione dell’apparato repressivo, fingendo di dimenticare le quotidiane intimidazioni e le rappresaglie cui vengono ogni giorno sottoposte le forze dell’ordine. Tutto nella più totale e generale indifferenza. Anzi, qualche volta, nella ipocrita negazione di una verità: la lotta alla criminalità non è più un problema di alcune aree del Meridione ma una delle emergenze prioritarie del nostro Paese.
Come non ricordare quanto accade, per esempio, in Puglia, regione fino a poco tempo fa ritenuta immune dal contagio mafioso. Due attentati in pochi giorni contro il palazzo di giustizia di Lecce, che poco allarme hanno suscitato; e, ieri infine, la notizia dell’esplosivo sui binari alle porte della città barocca, che altri lutti non ha provocato solo per un caso. Gli investigatori attribuiscono alla mafia locale la paternità di tali intimidazioni.
Continua a mancare, a nostro avviso, una risposta istituzionale adeguata che faccia comprendere a tutti, e principalmente alla malavita, che quanti, magistrati, poliziotti o anche semplici cittadini si oppongono allo strapotere mafioso, non sono soli ma godono della solidarietà delle istituzioni e di quella società civile alla quale pure si chiede una reazione, per esempio di fronte al dilagare della piaga delle estorsioni. Ma non si può ignorare che, per ottenere una “nuova” solidarietà dai cittadini, lo Stato deve cambiare registro, abbandonando la mentalità burocratica e le tecniche obsolete con cui finora si sono affrontati i problemi legati alla lotta alla mafia per approdare soprattutto ad una “nuova professionalità”.
Le modifiche recentissime dell’ordinamento delle forze di polizia e degli uffici del pubblico ministero sono state adottate appunto per creare organismi agili e moderni in grado di opporre alla malavita efficaci strategie di lotta. Ma bisogna dire con chiarezza che siamo soltanto all’inizio, basti pensare, d’altra parte, che la riforma degli uffici del pubblico ministero non ha ancora esaurito l’iter legislativo. Con queste iniziative si è appena colmato, e solo in parte, il grave ritardo nell’adozione di indispensabili strumenti legislativi per la lotta alla mafia. Sbaglia, dunque, chi ritiene siano stati compiuti decisivi passi in avanti. Adesso viene la parte più difficile: dotare gli uffici di adeguati mezzi logistici e formare le “nuove professionalità”. Certamente non si parte da zero, ma non si può nemmeno parlare di situazione soddisfacente, come confermano i risultati poco esaltanti degli ultimi anni.
La strada è lunga e in salita e non servono scorciatoie di alcun tipo: neppure il ricorso ad eventuali leggi eccezionali. Probabilmente accadrà di trovarsi ancora a dover piangere per lutti di mafia, ma guai se dovessimo lasciarci andare al senso di frustrazione e di impotenza che finora hanno accompagnato le tante, troppe, uccisioni di persone per bene.
*Per gentile concessione de “La Stampa”