Chinnici e quell’invito a “non rassegnarsi”

Un ordine di morte partito da quella terra di Trapani dove aveva cominciato la sua carriera di magistrato. Assegnato nel 1952 al Tribunale di Trapani e poi diventato Pretore a Partanna, dal 1954 al 1966. Quaranta anni dopo la strage di via Pipitone Federico di Palermo, era il 29 luglio 1983, prestando la dovuta attenzione, si sente ancora bene quel “botto” che cancellò la vita del giudice Rocco Chinnici, aveva 58 anni ed era il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, l’inventore del pool antimafia. Quei 75 chili di tritolo con il quale era stata “imbottita” l’autobomba lasciata parcheggiata davanti il portone dell’edificio dove il giudice abitava con la sua famiglia, fecero a pezzi anche il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato scelto Salvatore Bartolotta, il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Sopravvisse Giovanni Paparcuri, l’autista del giudice, fino a pochi istanti prima, racconta, era poggiato proprio sul cofano di quell’auto che il boss Nino Madonia, appostato poco distante, avrebbe fatto saltare in aria al comparire del giudice Chinnici , appena fuori dall’androne del palazzo. Giovanni Paparcuri che tornato al lavoro dopo mesi di angoscia anche per il suo destino, sarebbe diventato il “magnifico informatico” dell’ufficio istruzione affidato frattanto al giudice Nino Caponnetto. Non ho mai approfondito, ma penso che Giovanni Paparcuri fu tra i primi a utilizzare i computer al Palazzo di Giustizia di Palermo.
Le indagini, i processi, per la strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ci hanno lasciato scritto che furono i cugini Salvo di Salemi, Nino e Ignazio, i potenti esattori siciliani, a volere quella strage. Con le sue indagini il giudice Rocco Chinnici era ad un passo da loro, esponenti di rilievo di quella che oggi verrebbe indicata l’area grigia di Cosa nostra, dove mafiosi,. piccioli, soldi, e politica, erano tutti un’unica cosa. Lo sentiamo bene ancora quel “botto” perché sebbene siano trascorsi 40 anni e abbiamo anche fatto il salto di un secolo, il clima, l’agire mafioso, le collusioni, sono sopravvissute. Anni terribili. Quei magistrati dell’ufficio istruzione di Palermo, con Chinnici c’erano Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta, erano guardati malamente dentro e fuori quel Tribunale. Chinnici annotò nei suoi diari il rimprovero ricevuto dal presidente della Corte di Appello, Giovanni Pizzillo, per le sue indagini che “stavano rovinando l’economia di Palermo”. Chinnici indagava sui traffici di droga e sui soldi che la mafia guadagnava e riciclava, facendo investimenti per miliardi di lire. E con i soldi Cosa nostra pilotava il consenso della società a proprio favore. La “maffia”. Così ai tempi in cui Chinnici iniziava la sua carriera di magistrato, veniva chiamata Cosa nostra. E la gente della “maffia” ne parlava bene, quel termine, che già trasudava di morte, veniva utilizzato per esempio per apostrofare una bella donna, “talia (guarda) quant’è maffiusa sta fimmina (donna)”. A Partanna, dove fece il Pretore, il giudice Chinnici toccò con mano come la gente stesse dalla parte dei mafiosi, indicati come “galantuomini”. Maturò a Partanna la convinzione di non allontanarsi da quelle persone, ma semmai di avvicinarsi quanto più possibile alla gente per fare aprire loro gli occhi sulla realtà che li circondava. Impegno proseguito a Palermo, con decine e decine di incontri con i giovani, con gli studenti. C’erano stati già i morti ammazzati, uomini delle Istituzioni, magistrati, poliziotti, giornalisti, eliminati da Cosa nostra, e lui, Chinnici, invitava a “non rassegnarsi” mai. Da vicino stando nel Belìce aveva conosciuto i mafiosi del feudo, quelli che proteggevano i latifondisti, a Palermo si scontrò con i mafiosi che frattanto erano sbarcati nella politica e gestivano i grandi appalti, sventravano il capoluogo siciliano con il sacco che avrebbe reso ricca Cosa nostra, e gestivano i traffici di droga, infestando città e campagne dell’isola, diventata una grande raffineria di droga.
Una realtà che non sempre veniva raccontata bene dai giornali dell’epoca. C’era chi spiegava molto bene ai lettori, le indagini del pool antimafia dell’Ufficio Istruzione, e c’era chi scriveva di versioni opposte. Un po’ come accade oggi, dove per tanti la mafia è finita con la cattura di Matteo Messina Denaro, negando invece che Cosa nostra ancora resiste, grazie a quelle casseforti disseminate in mezza Europa, o ancora per certi sostegni e aiuti sfuggiti alla Giustizia. Oggi spesso si fa finta di non vedere, proprio come accadeva in quegli anni ’80, quando a quei giudici si attribuivano colpe insanabili. Invece di apprezzare il loro lavoro. Oggi, ci ricorda il collega Paolo Borrometi, purtroppo, i magistrati, gli investigatori impegnati, i giornalisti, devono continuare a fare i conti con colleghi e persone che su questa scena hanno il compito di impersonare il ruolo dei “traditori”. Oggi per qualcuno che sta nei palazzi del potere il peggio è passato e dunque si cancellano reati, si pensa a cancellare il concorso esterno in associazione mafiosa, vogliono levare le intercettazioni e si invitano i coraggiosi ad andare via da questo Paese. Vogliamo ricordare bene il giudice Chinnici? Facciamolo coniugando bene quel passato con il presente. Ci renderemo conto che quel periodo non appartiene alla storia ma è attualità.
Oggi bisogna riscoprire il fiuto, il naso, la capacità di Chinnici mettere al posto giusto i pezzi del puzzle, è necessario impegnarsi per toccare le cose con mano. I palazzi, i salotti, la finanza, ieri come oggi, nonostante il salto di secolo, sono ancora onnipresenti. Ed allora bisogna reagire, dobbiamo alzare la testa, non rassegniamoci mai. ancora oggi è il giudice Chinnici che lo chiede, a tutti, non solo ai giovani.

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Rino Giacalone, direttore responsabile e cronista di periferia. Vive nel capoluogo trapanese sin dalla sua nascita. Penna instancabile al servizio del territorio e alla ricerca della verità.