I racconti di Nicola Quagliata.
Racconto breve ma non troppo
Un lavoro che si deve fare.
Questo è il lavoro che ci ha chiesto don Filippo, ed è un favore che chiede a te, ha chiesto che sia tu a sparare, a fargli questo favore.”
Michele Colasanti sapeva che non c’erano domande da fare in questi casi, e meno sapeva meglio era per lui, doveva solo ubbidire a don Filippo.
Di colpo senti di poterlo fare e realizzò nella sua mente proprio la semplicità del “lavoro”, una camminata in discesa in mezzo alla terra, l’avvicinarsi allo sconosciuto, il tirar fuori dalla tasca la pistola e sparargli, quindi tornare indietro, all’auto. Calcolò anche in cinque minuti i tempi richiesti per l’andata ed in cinque minuti il ritorno, in dieci minuti il lavoro era fatto.
Quando Michela Colasanti fu vicino all’uomo riconobbe Saro, detto Spicuni, un viddranu di cui si era parlato in paese perché si rifiutava di vendere il suo terreno a don Filippo e che si vantava di non essere un “pecorone”, che quella terra era la sua vita e non se ne sarebbe mai privato.
Ora Saro Spicuni stava perdendo la vita e la terra. E Michele Colasanti capì perché veniva mandato ad ammazzarlo, ma gli rimaneva la curiosità, perché don Filippo mandava lui?
Michele gli andò vicino, l’uomo si girò verso di lui a guardarlo e quando vide la pistola comparire nelle mani dello sconosciuto si girò per scappare, a quel punto Colasanti punto verso di lui e sparò. Colpito l’uomo cadde gridando, ed ancora Colasanti sparò ed ancora l’uomo gridò di rabbia e di dolore, ancora sparò e quando l’uomo a terra smise di gridare, come gli aveva detto Mommo, gli andò vicino e gli sparò sulla testa, si girò ed in fretta senza guardare il cranio che si era squassato e il cervello che era schizzato sul’erba tenera si mise a camminare verso l’auto, la salita gli fece venire il fiatone e dimenticare l’odore degli spari.
Mommo si fece trovare seduto sul seggiolino posteriore e Andrea aveva già acceso il motore. Quando Michele chiuse lo sportello l’auto partì come se nulla fosse, erano diretti verso lo svincolo di Segesta per prendere l’autostrada e tornare in paese.
Furono nei pressi della villa di don Filippo prima di mezzogiorno.
Una villa a metà collina, da dove si vedeva tutto il mare del golfo che nelle giornate di sereno sembrava lo specchio del cielo, sopra la villa c’era il verde dei pini e degli eucaliptus, nelle diverse tonalità di verde, il verde del pino d’Aleppo ed il verde del pino Silvestre e davanti all’alberato il verde fitto dei pini frangivento, alcuni erano marroni, scheletrici, dai rami irrigiditi e senza vita.
Lo lasciarono davanti al cancello posto tra due muri imbiancati con la calce, alti, con taglienti cocci di vetro di diversi colori alla sommità.
• Tu suona il campanello e ti aprono, poi sali la stradella ed arrivi alla villa, ad una certa ora ti veniamo a prendere, tu aspettaci qui, ti riportiamo a casa.
Mommo scese dall’auto per passare davanti, chiuse lo sportello e Andrea ingranò la prima e partirono.
Michele Colasanti davanti al cancello si stiracchiò con le braccia in alto e contorcendo il corpo, guardò dall’altra parte del cancello ampio per far passare auto di grande cilindrata e vide che era scuro per effetto della vegetazione. Sulla parte sinistra del cancello vide il citofono incassato nella parete, suonò e dopo un po’ gli rispose una voce femminile dal forte accento paesano con le consonanti e le vocali strascicate dal setto nasale.
• Cu èèèè?
• Michele Colasanti sono.
• Ah! Tu si? Ti rapulucancellu e acchiani.
Michele Colasanti il giorno prima senza speranze ora si trovava dentro al giardino della villa di don Filippo.
Il cancello si aprì e Michele Colasante varcò la soglia, il cancello si fermò e riprese il movimento all’indietro e gli si chiuse alle spalle. La stradella asfaltata da poco di catrame odorava ancora della pece fresca, saliva leggera e girava a destra, delimitata dai freschi pini frangivento diretti verso il cielo. L’asfalto si sentiva morbido sotto le suole delle scarpe ed ancora di più dovevano esserlo sotto le gomme delle auto, ed era silenzioso. Superata la curva vide davanti a sé che la stradella finiva in una piazzola rotonda e di fronte l’ingresso della villa e la porta che si aprì e si affacciò una donna anziana che con il braccio e la mano gli faceva segno e lo chiamava a sé.
Quando le fu a tiro di voce l’anziana oltrepassò l’uscio verso l’esterno:
• Arrivasti? Veni, veni chi a tiaaspittamu, trasi. –
L’anziana signora aprì uno spiraglio di porta e fece entrare Michele Colasanti il quale avendo le pupille dilatate dalla luce esterna ebbe difficoltà a vedere all’interno, e rimase fermo dietro la porta che intanto l’anziana socchiudeva, e mentre chiudeva diceva a Colasanti “trasi, trasi, don Filippo a tiaaspittava, non mi chiedere niente, assettati”. Michele Colasanti cozzò con le ginocchia in una sedia adagiata alla parete facente parte di una fila di sedie pesanti di legno di castagno con la seduta in cuoio intrecciato. Michele Colasanti si stava per sedere sulla sedia a lui più vicino.
– No Michè! lascia stare la sedia, qua ti devi sedere, sulla poltrona, è molto comoda sai? Io certe volte, quando sono stanca ed ho pensieri, perchè pure io ho pensieri, mi vengo a sedere su questa poltrona, dove sta ora, in penombra, e non penso più a niente, e mi riposo pure la mente, e poi, è anche comoda. Quando l’hanno portata dal Veneto, da un paese che si chiama Bovolone, un paese dove fanno solo mobili, la volevano mettere al piano di sopra, io mi sono impuntata perché la mettessero giù, qui, all’ingresso, e l’ho sistemata vicino a quella parete”.
Colasanti rinunciò alla sedia che aveva vicino e pur senza convinzione si diresse verso la poltrona che gli veniva indicata da Za’ Sara.
– Tu si Colasanti vero?
– Si, Michele Colasanti.
– Io ho conosciuto tuo padre, un uomo su cui nessuno aveva mai avuto da ridire, che sapeva tirarsi il suo filare senza guardare quello degli altri, ma su questa terra le cose non vanno mai come dovrebbero andare, c’è gente tinta, che non sa farsi gli affari suoi… aspetta Michele, ti vado a fare un caffè e te lo porto…
Si avviò silenziosa verso la porta dirimpetto a quella d’ingresso, e scomparve lasciandosi dietro l’uscio semichiuso per l’abitudine di non lasciare gli ospiti all’ingresso senza controllo. Con la porta semichiusa chiunque all’ingresso doveva pensare di essere osservato e sotto controllo.
Dopo pochi minuti ritornò, preceduta dall’aroma di caffè, con un vassoio lucido d’argento, o d’acciaio, in mano, e sopra una tazzina bianca con delle foglie verde chiaro disegnate, che a Colasanti apparve molto elegante, ed il piattino dello stesso colore, e pure la zuccheriera, dello stesso servizio di tazzine, e il cucchiaino, per girare lo zucchero nel caffè, sul piattino di fianco alla tazzina, e c’era la caffettiera, non molto più alta della tazzina ma panciuta e col becco sottile. Colasanti pensò che aveva impiegato poco tempo e che qualcuno doveva aver già preparato il caffè ed il vassoio. D’altronde si sapeva che don Filippo disponeva nella villa di una numerosa servitù.
Da quando era stato chiamato dalla za’ Sara, Michele Colasanti aveva abbandonato, nella sua mente, il lavoro svolto in mattinata, il rumore dello sparo, le grida di Spicuni e la sua testa che si svuotava del cervello sull’erbetta tenera.
La za’ Sara era la portavoce di don Filippo e stare a contatto con lei era come stare con lui e tutto ciò che da don Filippo era approvato e addirittura richiesto e voluto, non doveva dare pensiero.
Michele Colasanti si alzò dalla poltrona e prese la tazzina, con mano ferma, prese il cucchiaino, prese lo zucchero e lo versò nel caffè. Girò il cucchiaino nella tazzina e lo poggiò sul piattino che la za’ Sara teneva sul vassoio, quindi bevve il caffè e ripose la tazzina.
La za’ Sara soddisfatta guardò con aria materna Colasanti e gli disse:
– Don Filippo è contento, dice che hai fatto un buon lavoro, e dice che ha fatto bene ad avere fiducia in te, dice che sapeva che non lo avresti deluso, e che non lo deluderai in futuro, hai fatto un buon lavoro, tra qualche giorno avrai buone notizie, vai sereno a casa tua.